“Cinque donne del sud”, testo e regia di Francesca Zanni, con Beatrice Fazi. Alla Sala Umberto di Roma
Un secolo e mezzo dentro un baule
A teatro più del giallo può la saga familiare, Elena Ferrante più di Andrea Camilleri. Beatrice Fazi è andata in scena alla Sala Umberto di Roma con un monologo scritto e diretto da Francesca Zanni intitolato Cinque donne del sud e incentrato su altrettante figure femminile, una dietro l’altra di madre in figlia incominciando dal secondo Ottocento e dagli anni della grande emigrazione italiana fino ai giorni nostri.
È tempo, ormai da tempo, forse fuori tempo, di storie familiari, biografie, autobiografie, la nonna, la prozia, la suocera del cugino, il compare del bisnonno della cognata di mammà. Strano popolo gli italiani, soprattutto quelli di oggi, hanno quasi tutti l’avo fascio, soprattutto il fascio lasco, quello che pigliava la tessera del partito per non avere rogne e conservare la licenza del banco dell’ortofrutta al mercato di piazza Vittorio, ma guai a chi glielo ricorda, gli antenati hanno da essere sempre gente di coraggio e di epiche avventure. Ancora strano popolo, gli abitanti del Belpaese, come lo si chiamava una volta, prima della calata dei geometri locuste: a stragrande maggioranza imparentati con i morti di fame emigrati nelle Americhe, votano i cacciatori di immigrati con la goduria e il disprezzo del vecchio pezzente oggi benestante. Tutto questo biografismo che discende sulle nostre scene più delle cicerchie bio sugli scaffali degli ecosupermercati, deve avere una ragione ed è che la storia è come il cachemire cinese dell’outlet, più la si lava più si stinge.
Il testo di Francesca Zanni offre però qualcosa di generalmente difficile da trovare in questi esercizi di prosa retorica sul come eravamo e come erano i miei, ossia l’umorismo. L’umorismo salva da tante trappole, in primis dal fatto che sicuramente vari spettatori in sala hanno storie familiari più avvincenti di quella che si sta raccontando in scena, quindi non si capisce perché si narri proprio quella. In secondo luogo, in un paese come l’Italia, la cui società è impiombata dal familismo amorale e dal tribalismo clientelare, l’epica della famiglia dovrebbe richiamare l’attenzione della buoncostume per il reato di atto osceno in atto scenico. Poi c’è il problema della retorica connessa alla magnificazione del passato, più precisamente della ”petite histoire” – come si dice in storiografia – vista quale grande avventura individuale di cui si esaltano difficoltà poetizzabili, la povertà e la disperazione sempre assieme alla speranza, al viaggio verso un destino migliore, ma si tace delle malattie ripugnanti, delle piaghe purulenti, delle scrofole, della puzza nei tuguri, della sporcizia, dei topi. In queste storie si può forse sentire parlare di un antenato con la tisi o la sifilide, mali da Ottocento romantico, o al limite d’un gottoso, condizione patologica da ricchi, ma mai di contadini con la disgustosa pellagra, 97mila casi in Italia secondo l’inchiesta ufficiale della Direzione dell’Agricoltura del 1878, o di lebbrosi, ancora quattrocento malati nel 1961. Ci saranno pure discendenti di quei poveretti in giro oggi.
La parabola delle cinque donne del sud comincia pochi anni dopo l’inchiesta sulla pellagra, nel 1887 e va avanti attraversando alcuni dei fatti storici che hanno segnato l’emancipazione femminile, dalle prime rivendicazioni all’amore libero degli anni Sessanta fino ad oggi, all’ultima della schiatta, una nativa digitale che a diciannove anni rimane incinta e decide di tenere il bambino. Fazi le interpreta tutt’e cinque, le manda in America sulle navi dell’emigrazione italiana, le porta a Woodstock e le fa tornare in Italia, nella Milano da bere di Tangentopoli. Madre mediterranea che sgrava senza sosta, femmina ribelle femminista, figlia dei fiori, donna manager, millennial con il nulla nel futuro e un futuro da nulla. L’ambizione dell’artista in scena è doppia, di riuscire a stringere un secolo e mezzo di storia delle donne e dell’emigrazione femminile in una sintesi teatralmente descrittiva e di interpretare i vari personaggi con la compiutezza del segno, del tocco capace di donare sostanza ad ognuno di loro e carattere. Va detto che ci riesce, che quanto fa ha sempre senso, che v’è tecnica e colore e mordente nella prova d’attrice, grazie anche a una scelta semplice di regia e non timorosa dell’apparente banalità di piazzare a solo elemento scenografico un baule, il solito baule che sembra sempre la soluzione di chi non ha soluzioni. Invece è teatralmente molto efficace, permette cambi di costume rapidi, agevola il disbrigo senza cincischiamenti di varie questioncelle sceniche, dà all’allestimento un po’ di peso senza pesare, insomma è utile assai all’interprete e si porta in tournée comodamente. Il teatro è un fatto pratico, per esercitare l’arte bisogna avere una buona tecnica, una buona salute e un buon baule.