“Tito” di Michele Santeramo e “Giulio Cesare” di Fabrizio Sinisi, regie rispettivamente di Gabriele Russo e Andrea De Rosa. All’Argentina di Roma
Oltre l’urlo, una pantofola
Non c’è miglior consolazione allo scorrere del tempo d’uno spettacolo vecchio. Un vecchio spettacolo rischia invece di provocare nostalgia. Vedere che gli anni passano ma ancora c’è chi fa teatro come cinque, sei, sette lustri fa, con gli attori che si dimenano e urlano a più non posso, consente di sentirsi se non giovani, almeno immutabili nel tempo, morti anzi, di quella morte in vita di chi scambia la mera successione delle giornate per un’esistenza e la semplice agitazione in scena per azione teatrale.
All’Argentina di Roma si rappresenta uno spettacolo fatto di due tempi, due testi, due autori, due riscritture di due opere di Shakespeare e due registi. Ciò farebbe sperare che a volte nell’uno v’è il due, ma illusoriamente perché spesso nel due non v’è neanche l’uno: Tito di Michele Santeramo, regia di Gabriele Russo, è una disintegrazione del Tito Andronico; Giulio Cesare, sottotitolo Uccidere il tiranno, è dell’omonima tragedia uno sventramento di Fabrizio Sinisi autore e di Andrea De Rosa regista. Soprattutto il Giulio Cesare è un’ora buona di furori e urla, perfino al microfono. Gli attori tragici che strillano come invasati, o che la regia incoraggia allo strepito, sono un po’ come i comici che ridono in scena delle loro stesse battute: si tratta di fenomeni contemporanei e si vedono spesso a teatro cabarettisti che sghignazzano ritenendosi molto divertenti.
Bruto, Cassio e Casca stanno in tre buche del palcoscenico a sbracciarsi e agitarsi. Antonio spala terra e la rovescia su un cadavere (deve essere Cesare). Naturalmente le luci sono le solite in questi casi (e anche in Tito): bluastre o bianche ghiacciate e poi buio un po’ qua un po’ là. Serve a fare atmosfera tragica in stile postmoderno al neon ultrametropolitano. Anche Titus, film del ’99 di Julie Taymor con Anthony Hopkins e Jessica Lange, si svolgeva come Tito in una Roma contemporanea con scene al Colosseo quadrato vagamente evocato dalla scenografia dello spettacolo. Ma quello era un film impressionante che dava a Shakespeare quel che è di Shakespeare, truculenza, sangue, violenza, la tragedia più brutale del bardo, una fantasia splatter che ridimensiona Quentin Tarantino a regista di film al ketchup. Il Tito di Santeramo invece è un signore stanco che ha come unico desiderio di essere lasciato in pace seduto in una poltrona con un libro in mano. Un non-eroe ormai, che potrebbe avere letto un po’ di Feuerbach e scoperto che principio regolatore dell’azione è bene sia l’istinto di felicità, ossia la ricerca di una vita sana e priva di dolore. Sua ambizione massima è divenire un tizio normale che passa giornate normali. Insomma Tito, che in Shakespeare è un eroe tragico dentro un vortice di atrocità, di mutilazioni e di morti, qui farebbe fatica ad andare alla posta a pagare la tassa dell’immondizia. Il guaio è che il prossimo ha altre idee e allora la vita va avanti, lo disturba e lo costringe alla vendetta.
Il testo vuole essere un discorso sull’insensatezza della guerra e della violenza. Meglio stare in pantofole. Osservazione nobile e profonda ma anche ovvia: troppo whisky ubriaca, l’ubriachezza è molesta, se non ti vuoi cacciare nei guai bevi limonata. I due testi messi insieme formano un discorso complessivo sul potere, sulle sue nefandezze e sulle sue ragioni perché poi Bruto, Cassio e Casca s’accorgono che ammazzare Cesare non elimina il problema di come governare gli uomini e di chi lo deve fare. Allora il quesito diventa: è legittimo uccidere il tiranno? Una domanda nuova di zecca come una moneta romana e come lo spettacolo.