“Manuale di volo per l’uomo” di Cristicchi – Ortenzi, con Simone Cristicchi diretto da Antonio Calenda. Alla Sala UImberto di Roma
Il démone delle piccole cose
La filosofia dello spettacolo scritto da Simone Cristicchi e Gabriele Ortenzi, Manuale di volo per l’uomo, monologo interpretato dallo stesso Cristicchi diretto da Antonio Calenda, è che “niente è più grande delle piccole cose”, come sta scritto nel programma di sala. A questa constatazione da poeta crepuscolare se ne può accostare un’altra, magari un po’ più vitale, tipo quella di La Rochefoucauld: “Coloro che si applicano troppo alle piccole cose, diventano sommamente incapaci delle grandi”. Le opinioni sono come i proverbi, anche quando suonano giuste si contraddicono l’un l’altra. Non bisogna fidarsi. Nemmeno di se stessi.
Cristicchi va in scena con uno spettacolo di vena surreale, interpretando un quarantenne stralunato, eccentrico, un po’ tocco in verità, che ha avuto una vita difficile, è stato lasciato dalla madre prostituta in un istituto di suore, è rimasto infantile, ingenuo, spontaneo. È il mito dell’eterno fanciullo che raggiunge il genio e la comprensione del mondo grazie alla sua capacità di conservarsi puro e innocente anche nella più cruda sofferenza. Secondo questo modo di vedere, molto più abile a cogliere una verità sugli uomini sarebbe il naïf Antonio Ligabue piuttosto che il cubista Picasso. Il personaggio di Cristicchi, che si chiama Raffaello, come il pittore, possiede alcune caratteristiche degli autistici (anche se tale non verrà mai definito durante lo spettacolo): un pignolissimo senso dell’ordine, un talento per la matematica e una grande memoria, soprattutto per i dettagli. Nel posto dove si trova, una stanza d’ospedale evidentemente, e certamente l’anticamera della propria morte, giace in un letto la madre in fin di vita. Il figlio parla a lei per dire al pubblico e nel corso del monologo descrive la propria vita intima, traccia una sorta di arco interiore che è una realtà spostata rispetto alla realtà che convenzionalmente noi tutti accettiamo come l’unica. Notoriamente Cristicchi è sempre stato molto interessato ai matti e ai manicomi. Nel microcosmo di Raffaello, dentro il suo modo anomalo di guardare il mondo, il solo principio che conta è l’amore. L’amore per l’amore, l’amore cosmico, divino, buono, salvifico, così difficile da far passare a teatro. Il palcoscenico non è la terra della purezza ma il campo di battaglia fra il bene e il male.
Calenda regista ha una mano abile nel mettere in scena un monologo, sa quando muoverlo, come fare ad evitare il pericolo di staticità dello spettacolo. Chiede al protagonista movimenti semplici e lo tiene su una linea di demarcazione fra l’attore e lo showman, un po’ di più dal lato del primo, il che significa meno esibizione e più interpretazione, meno gesti e più parola. Ora, un testo siffatto può anche non piacere e il personaggio risultare retorico, melenso addirittura, ma è una questione di gusto personale, di ciò che ci si aspetta dal teatro, per quali ragioni si prende posto in platea e quali emozioni si va cercando. Però la messinscena è fatta bene e l’operazione, anche narrativa, funziona. E legittimamente si può pensare che questo zuccherato barattolone d’amore e d’innocenza non può che far bene all’anima. Tuttavia un limite esiste e Cristicchi lo supera dopo gli applausi quando, come si fa con i bis ai concerti, s’abbandona a un supplemento d’indagine sulla bontà d’animo. Stavolta però parlando di sé, della sua adolescenza passata dopo la morte del padre in una stanzetta a rifiutare il mondo, isolato, chiuso in una propria vita interiore. E per colpa di questa coda, tutto lo spettacolo antecedente si attira un immeritato sospetto di autopsicoterapia. Assai più dell’amore ingenuo, antiteatrale è l’autobiografismo.