“Tango glaciale reloaded” progetto, scene e regia di Mario Martone. Al teatro India di Roma

tango glaciale reloaded 2018

Il teatro è l’anima del commercio

Dopo quasi quarant’anni torna in scena al teatro India di Roma lo spettacolo che nel 1982 lanciò il regista Mario Martone e il collettivo napoletano Falso Movimento. Tango glaciale reloaded è il titolo del riallestimento: alcune parole andrebbero abolite con decreto del Presidente della Repubblica, il quale è anche capo delle Forze armate, e una è “reloaded”.
Nelle note che accompagnano lo spettacolo si afferma che Falso Movimento era “il collettivo di artisti che in quegli anni cambiava la storia della sperimentazione teatrale italiana”. Questa è una spiritosaggine. Ovviamente non è vera, all’epoca la storia della sperimentazione italiana cambiava tutti i giorni e del compito si incaricava gente come Giancarlo Nanni, Giancarlo Sepe, Memè Perlini, Giuliano Vasilicò, Pippo Di Marca, Carlo Quartucci con Anna Tatò e naturalmente Carmelo Bene, tanto per citarne alcuni a caso. La sperimentazione teatrale con le proiezioni e la musica che caratterizzava Tango glaciale, era roba che per esempio Leo De Berardinis e Perla Peragallo facevano dal 1967 con La faticosa messinscena dell’Amleto di William Shakespeare. Ora, non è necessario scrivere un trattato sull’ultimo mezzo secolo di teatro italiano solo perché qualcuno sostiene che Martone e il suo collettivo di appartenenza avrebbero cambiato la storia. Però si può ricordare da dove veniva Martone, teatralmente parlando. Lo spiegò lui stesso in un’intervista pubblicata nel 1988 in un saggio di Oliviero Ponte di Pino (Il nuovo teatro 1975 – 1988 per La casa Usher): “Non avevo nessuna esperienza teatrale, non avevo fatto nessuna scuola; a teatro non ci andavo nemmeno se mi pagavano, perché mi addormentavo dopo dieci minuti”. Dichiarazione abbastanza sorprendente per un napoletano e che comprova la difficoltà di Martone di intendere la molteplicità delle ragioni per andare a teatro, luogo da frequentare anche per dormire, così come per arrabbiarsi, gioire, ridere, piangere e insomma disbrigare tutte quelle pratiche attinenti al ruolo di spettatore. “Il sonno infatti è una vita di recupero – diceva Ennio Flaiano – il teatro una vita di ricambio”.
Comunque, un passaggio di un’intervista rilasciata nel 2015 a un quotidiano da Anna Bonaiuto, per molti anni compagna di Martone nella vita e nel lavoro, rimette alcune cose al loro posto: “Il vero teatro di ricerca per me era Eduardo, come dopo lo è stato Ronconi: il teatro che studia, cerca come portare un testo nel modo più diretto e necessario, non per farlo “strano”“. Martone lo fece strano all’epoca, praticamente senza testo, appunto, salvo qualche parola smozzicata dagli attori qua e là. Tal quale oggi lo spettacolo è rimasto, anzi Ora mi annoio più di allora / Neanche un prete per chiacchierar. La definizione che si dette a questo modo di mettere in scena fu “Nuova spettacolarità”. Le etichette vengono sovente ritenute delle gabbie dagli artisti, ma quelli più ferrati in autopromozione sanno che una corrente porta più facilmente nel fiume della Storia.
Tango glaciale è lavorato “alla seconda”, come diceva Martone, con musiche e immagini preesistenti. Su una colonna sonora incessante, rock, disco-music, jazz, tango, da Astor Piazzolla a Duke Ellington fino ai Bow wow wow, gruppo new wave inglese fondato nel 1980 da Malcolm McLaren, già manager dei Sex Pistols, per promuovere la linea di moda della compagna Vivienne Westwood. Negli anni Ottanta – Tango glaciale è un tipico prodotto di quel decennio – il marketing diventa una patologia psichiatrica, tutt’oggi invalidante per l’umanità, e c’è chi fa musica per commercializzare il glamour punk del corsetto e del faux-cul comprati a King’s road. Non più l’art pour l’art ma l’art pour moi e per i soldi, i rivoluzionari del conto in banca, i Che Guevara delle boutique. È il dominio della griffe con quanto ne consegue anche sulle scene, il teatro fashion, il supermercato della sperimentazione, l’anticonformismo del calcolo. Dalle pacchianate alla pacchia: sulla pornografia della provocazione pianificata si sono costruite carriere e ricchezze.
Lo spettacolo di Martone simula l’attraversamento da parte di due uomini e una donna di una casa con dodici ambienti per dodici diverse scenografie alla media di un cambio di scena ogni cinque minuti per un’ora di rappresentazione. I tre attori, o meglio “danzattori”, si muovono tra fasci di luci violente rosse e verdi, composizioni geometriche alle pareti e videoproiezioni di disegni (di Lino Fiorito) che li fanno apparire come cartoni animati. Si passa da un salotto a un ascensore che porta in una stanza dove si balla un tango con l’aspirapolvere per andare su un tetto dove i tre vestiti con impermeabili da detective americani corrono pistole in pugno per finire in una piscina e in un giardino fiorito. Fino ad arrivare a un finale che ricorda un vecchio film del ’74 di Francis Ford Coppola, La conversazione, in cui Gene Hackman suona il sax tra le macerie della sua casa. Tutto ciò naturalmente non significa niente o quasi, il trucco sta nell’operazione semantica di pretendere che un segno privato di qualunque significato si giustifichi comunque da sé per il semplice fatto di manifestarsi.
Lo spettacolo è teatro zapping, montato come una serie di spezzoni televisivi, una specie di blob, di modo che i passaggi da una stanza all’altra della casa appaiano come i salti col telecomando fra i canali. Più che nuova spettacolarità, è l’invenzione della canguro-scena. L’edonismo martoniano esplode nella rappresentazione della tv commerciale anni Ottanta, acriticamente messa in scena. Fu un decennio tagliato su misura per registi à la page che hanno avuto l’invidiabile abilità di non parlare quasi di nulla nei loro spettacoli ma di far parlare molto dei loro spettacoli. In scena, tre bravi interpreti – Jozef Gjura, Giulia Odetto e Filippo Porro – che fanno tanta danza e tanto movimento ma appunto non devono dire quasi nulla perché la parola, la quale tutto sommato è al centro della nostra civiltà, qui non è prevista.
In locandina si riporta che il riallestimento è curato da Raffaele Di Florio e Anna Redi, nelle note è scritto che “Martone riallestisce lo spettacolo”. Tuttavia l’aspetto più interessante di tutta l’operazione è la lista delle produzioni, coproduzioni, sostegni e collaborazioni che merita di essere riportata integralmente: Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto. Riallestimento nell’ambito del Progetto RIC.CI Reconstruction Italian Contemporary Choreography Anni Ottanta/Novanta (Ideazione e direzione artistica Marinella Guatterini). In coproduzione con Fondazione Ravenna Manifestazioni con il sostegno di Torinodanza festival | Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale in collaborazione con Amat – Associazione Marchigiana Attività Teatrali / Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee / Fondazione Teatro Comunale di Ferrara / Teatro Pubblico Pugliese – Consorzio Regionale per le Arti e la Cultura / Fondazione Toscana Spettacolo onlus / Fondazione Milano – Civica Scuola di Teatro “Paolo Grassi”. Mancano gli Immortali dell’Accademia di Francia, ma non tarderanno.

Marcantonio Lucidi,
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