“Aspettando Godot” di Samuel Beckett, con Antonio Salines e Luciano Virgilio diretti da Maurizio Scaparro. Al teatro Ghione di Roma
La salvezza è nella sconfitta
In scena al Ghione di Roma con la regia di Maurizio Scaparro, Aspettando Godot è al Novecento ciò che l’Amleto è all’età elisabettiana. E oltre Beckett al momento gli uomini non sono andati, per ora il ventunesimo secolo non ha generato il drammaturgo e il testo che lo sintetizzano. Quindi noi che siamo tutt’oggi nel Novecento con l’anima e la testa, continuiamo ad aspettare noi stessi. Viviamo la nostra esistenza in due atti, uno in cui non arriviamo e l’altro in cui non viene nessuno. È terribile. Mille sono i modi di interpretare Vladimiro ed Estragone, uno solo è giusto, quello che non si interroga sul significato di Aspettando Godot, ma sul senso e intende la poesia un’attività teatrale superiore alla filosofia. Quando è filosofia in azione, il teatro vive nel bello; quando è poesia in movimento, il teatro entra nel sublime.
Ci si innamora di Vladimiro ed Estragone interpretati da Luciano Virgilio e Antonio Salines, si domanda al buon dio perché non ci ha creati come i due personaggi beckettiani, con la loro densa malinconia della leggerezza, con l’insostenibile goffaggine delle anime estromesse, con le imperizie fanciullesche degli esseri laterali. Questi due attori magnifici, dolci, accarezzano le parole di Beckett con una morbidezza e una precisione commoventi, non un tono superiore al necessario, mai un momento poco chiaro, perché la forma del dire non è formalismo, e neanche buona educazione, ma regolarità, euritmia, che sostiene lo sgoverno delle emozioni, ossia artigianato contenente arte. Il vino è più buono in un bicchiere di cristallo che in uno di plastica.
Le didascalie del testo indicano un gran numero di cadute e abbandoni della posizione eretta, dovrebbero essere poco meno di cinquanta. Salines e Virgilio non le rispettano tutte. Non ha importanza. Cadono dentro. Non proprio barboni, non proprio vecchi comici, ma due esseri attraversati da un istante di luce prima che si faccia sera, bombetta e scarpe grosse, lo spettatore li guarda muoversi in scena sospirando per la loro svagatezza, felicemente addolorato di teatro, e percepisce, capisce, l’acutezza della sconfitta, quanto più interessante di qualunque vittoria. Vincere è pacchianeria propria dell’uomo di cattivo gusto, cacofonia di chi marcia alla guerra stupido e impettito ed invece di cadere e rialzarsi cinquanta volte, che è il movimento dell’esistere, cade una sola, che è il segno della morte. Pozzo è il vincitore, che oggi nel primo atto ci vede e domani nel secondo è cieco. Tiene alla corda il suo servitore e facchino Lucky, che oggi parla e domani è muto. Insieme sono uno, nessuno senza l’altro. Non bisogna farsi domande sulle ragioni di Beckett. Una rosa è senza perché.
Edoardo Siravo porta la voce di Pozzo un po’ più in alto di quanto sia necessario e c’è da chiedersi se è dell’attore tale spinta o invece richiesta di regia, fin qui così semplice e carezzevole nei confronti di Salines e Virgilio. L’ancoraggio del ruolo a più terragna fisicità sembra provenire da un dubbio sull’efficacia dell’aerea sobrietà dello spettacolo. O forse viene dal voler dare corpo alla guerra appunto, ch’è sempre rumore e furore, e allora Pozzo, come vincitore d’una volta e sconfitto per l’eternità, fa chiasso, inevitabilmente, è preda del tempo e passa fragorosamente come un grosso masso che rotola via.
Un solo momento per sé ha Lucky (Fabrizio Bordignon), un solo colpo di pistola ed è lo scombinato filosofare del suo monologo al primo atto, l’unica volta che parla è per non dire nulla, il pensiero che pensa soltanto il proprio movimento si arrotola nelle parole e rotola nel tempo anch’esso, via verso la propria fine. La filosofia è come il teatro, come l’arte, inutili se non sono attività dello spirito trascendente che interpreta l’immanente concreto.