“Leni – Il trionfo della bellezza” di Irene Alison, regia di Marcello Cotugno, interpretazione di Valentina Acca. Al Brancaccino di Roma
Al servizio di Satana
Su un personaggio ignobile del Novecento, la nazista Leni Riefenstahl, la grande amica di Hitler, la regista cinematografica che ha esaltato l’agghiacciante, funebre razionalità del Terzo Reich e l’estetica fascista del corpo umano, è in scena al Brancaccino di Roma un monologo, Leni – Il trionfo della bellezza, di Irene Alison, regia di Marcello Cotugno, interprete solista Valentina Acca, che in questi giorni si è vista nel ruolo di Nunzia Cerullo per il film televisivo di Saverio Costanzo L’amica geniale.
Non è semplice trattare una figura simile, questa malvagia celebratrice del mito della razza ariana che usò come comparse per un suo film alcuni bambini rom detenuti nei lager di Maxglan-Leopoldskron e di Marzahn, i quali dopo le riprese furono avviati ad Auschwitz e in altri campi di sterminio, dove morirono quasi tutti. La Riefenstahl sostenne, come la stragrande maggioranza dei tedeschi, di non sapere. Denunciò per calunnia chi la accusava e perse la causa. Giulio Andreotti diceva: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”. D’altronde presso i tedeschi non si è persa l’abitudine di gasare la gente e si sono usate cavie umane per i test sugli scarichi dei motori diesel.
Non è semplice portare in scena la Riefenstahl perché se la si infanga come merita, non si dice nulla di nuovo e lo spettacolo non troverebbe tutto sommato ragion d’essere: il personaggio storico è di una negatività assoluta, senza contraddizioni, quindi del tutto antiteatrale, e può al massimo divenire soggetto per un’opera storiografica o documentaristica. Se invece si cerca di vederne una qualità, in ispecie artistica, si rischia la trappola di una valorizzazione dell’estetica hitleriana. Vero che alcune soluzioni tecniche adottate per il più noto film della Riefenstahl, Olympia, sulle Olimpiadi di Berlino 1936, sono state importanti per l’arte cinematografica. Però sarebbe un po’ come dire che la Blitzkrieg fu fondamentale per l’arte della guerra: se ne poteva fare a meno.
Il testo di Irene Alison immagina Leni Riefenstahl che parla di sé per un’ora e un quarto e racconta dei suoi incontri con Hitler, dei suoi rapporti difficili con Goebbels, soprattutto di come ha girato Olympia. Cerca, giustamente dal punto di vista drammaturgico, di illuminarne il lato artistico, di sondare l’anima del personaggio, di renderlo umano, una donna “innocentemente spudorata ma insondabilmente oscura – scrivono l’autrice e il regista nelle note allo spettacolo – pericolosamente incosciente ma maniacalmente consapevole di sé, poetessa della propaganda eppure dichiaratamente apolitica”. Ma se la Riefenstahl avesse praticato un’estetica senza etica (etica nazista) si sarebbe trattato di cosmetica, quindi ininfluente. Se influente invece, allora la cineasta era, come in effetti era, una serva di Hitler. E l’ostracismo che l’ha perseguitata dopo la caduta del Terzo Reich fu giusto e buono. Il dilemma allora non sta nel personaggio, che non si è mai pentito quindi è fisso nella sua chiarezza, privo di possibilità evolutive, ma nei suoi rapporti con il Führer. Che il testo affronta ma non approfondisce, così come cita ma non penetra il dissidio con il ministro della Propaganda Goebbels, il quale peraltro era l’unico uomo acculturato di quella banda di criminali. Anche un monologo ha da contenere azione. I personaggi che non ci sono devono comunque essere dinamici e condizionare l’evoluzione del personaggio parlante. Altrimenti con esisterebbe differenza fra un monologo e un soliloquio: il primo è un discorso di un personaggio fra sé e sé che però si rivolge ad altri ed è un dialogo con chi non è in scena o siede in sala; il secondo essendo invece un parlare fra sé che non prevede nessun interlocutore o ascoltatore.
L’attrice quindi è messa nelle condizioni di poter esprimere solo una Leni colta nel proprio soliloquio. Che non aggiunge nulla a chi di lei sa e non spiega nulla a chi di lei non sa. Inoltre non tutti i ruoli sono per tutte le attrici e Valentina Acca, peraltro una buona interprete, deve restituire una figura che nel 1930 concorse per il ruolo protagonista de L’angelo azzurro e fu scartata solo in favore di Marlene Dietrich. Alta, bionda, una valchiria, la Riefenstahl anche fisicamente incarnava l’ideale ariano, la femmina della razza germanica, e questa sua immagine – senza che uno spettacolo teatrale debba mirare al naturalismo – è una componente fondamentale del personaggio storico ed evidentemente della sua personalità. Altrimenti in scena tutto diventa possibile e inverosimile, anche fare interpretare la vita di Marlene Dietrich a Penelope Cruz. Questa forse è la ragione per la quale nella prova di Valentina Acca si “sente” continuamente la regia, i movimenti che Cotugno ha chiesto, le espressioni e i toni che ha indicato.
Il 14 giugno 1940, Riefenstahl scrisse a Hitler il seguente telegramma: “Con gioia indescrivibile, profondamente commossa e piena di ardente gratitudine, condividiamo con te, mio Führer, la più grande vittoria tua e della Germania, l’ingresso delle truppe tedesche a Parigi. Tu superi qualsiasi cosa l’umana immaginazione abbia il potere di concepire, compiendo imprese senza pari nella storia dell’umanità. Come potremmo mai ringraziarti?”. Quando dopo la guerra le chiesero conto di queste parole, spiegò: “Tutti pensavamo che la guerra fosse finita e con quello spirito inviai il telegramma a Hitler”. Leni Riefenstahl morì a centouno anni, nel 2003. Dura ad andarsene, la serva di Satana.