“Generazione XX” di Anton Giulio Calenda, regia di Alessandro Di Murro, con gli attori del Gruppo della Creta. Al teatro Sala Uno di Roma
I loro anni migliori
Fino a che età si è giovani in Italia, paese dove vige una gerontocrazia moderata dalla corruzione e, ultimamente, dalla cooptazione della peggiore gioventù? Probabilmente fino a cinquanta, cinquantacinque, forse sessant’anni ed oltre. Quindi il Gruppo della Creta, compagnia di attori che si sono formati in una scuola di teatro romana e sono andati in scena alla Sala Uno con Generazione XX, si mettano l’anima in pace: per quanto possano essere bravi, rimarranno juniores fino ai bordi della senilità. Nel frattempo dovranno scansare i pericoli di una società che li respinge, forse li odia, sicuramente li vuole schiavizzare. È il tema del dramma, dal titolo eloquente d’altronde, scritto da un altro giovane, il ventisettenne Anton Giulio Calenda, che sa di cosa parla.
“La generazione X”, quella con una “x” sola, descritta nell’omonimo fortunato romanzo del 1991 del canadese Douglas Coupland e nata a partire dalla metà circa degli anni Sessanta – dopo i baby-boomers – fino al 1980, era descritta da indagini sociologiche più o meno attendibili o stereotipate come cinica, apatica, senza valori e affetti. Vi appartengono uno come Matteo Renzi ma anche i Nirvana. Poi s’è avuta la generazione Y, o Millennial, e probabilmente anche la sottogenerazione Zero del gruppo X, quella che nel 2001 è stata schiantata di botte al G8 di Genova dai neofascisti al potere e non ha reagito se non andando dagli avvocati.
Tuttavia le generalizzazioni generazionali sono un buon sistema per scansare la complessità della realtà e validare una sintesi che pretenda di cogliere lo spirito del tempo. Diversamente il teatro cerca di capire con la metafora, l’azione e il finto, che in scena è il contrario del falso. Allora la “Generazione XX” di Calenda sono Linda e Giacomo, due ragazzi, padre e madre di un neonato, che cercano di sbarcare il lunario. Lei non ce la fa più a vivere in questi anni in cui il sistema economico e sociale mantiene la gente, in ispecie i giovani, con l’acqua non alla gola ma a fior di labbra, in modo da non affogarla definitivamente e tenere viva una speranza che è nutrimento prelibato per i gestori e i profittatori dell’ordine costituito. Linda commette un omicidio in circostanze bizzarre (un po’ inverosimili a dire il vero): uccide un uomo per salvarne altri. E diventa una star dei media. Entra nel cuore del sistema, ci crede fermamente, viene sfruttata, gettata via e sostituita con una vecchia signora in sedia a rotelle che si rivelerà di inaudita ferocia. L’anziana donna sembra una caricatura di certi mostri umani propinati dai reality-show e dai talent. Su questo plot, Calenda innesta una questione politica: viene rapito un importante esponente del partito al governo (chiaro il riferimento alla vicenda Moro). Il tema sottostante è assai antico, ossia il rapporto fra etica e ragion di Stato, fra individuo e collettività.
Ora, tutta questa materia, oggettivamente un po’ complicata e dettata dall’ardore di dire del giovane autore, viene messa in scena dalla regia di Alessandro Di Murro con il duplice scopo di dare ordine alla drammaturgia e di esaltarne le qualità grottesche, finanche spettacolari, ed insomma l’energia, la forza visionaria, la capacità di individuare il surreale nella situazione generale. Perché surreale non è quanto accade in scena ma quanto accade nel mondo, secondo l’idea di Shakespeare che il fine del teatro è di tenere lo specchio alla natura e “di mostrare alla virtù i suoi lineamenti, al vizio la sua immagine”.
In scena un bel gruppo di giovani, chi già tecnicamente evoluto, chi ancora in fase di sviluppo delle proprie potenzialità, ma tutti meritevoli di citazione: Stefano Bramini, Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Giulia Fiume, Federico Galante, Laura Pannia, Lida Ricci e Bruna Sdao.