“La cucina” di Arnold Wesker, regia di Valerio Binasco, con gli attori della Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova. All’Eliseo di Roma.
La flatulenza del capitalismo
La cucina, scritta nel 1957, è una delle commedie più importanti di Arnold Wesker, autore londinese scomparso nel 2016 che ha scritto più di quaranta drammi, oltre a saggi, articoli, poesie, racconti. Fu nella sua giovinezza sguattero, aiuto-cuoco e pasticcere quindi quanto descrive in questo lavoro di sessant’anni fa, la vita quotidiana nella cucina di un ristorante, appare chiaro frutto della sua esperienza personale. Wesker, drammaturgo dal destino insolito, è stato importante ma si è fatto finta che non lo fosse; famoso ma non riconosciuto come tale, centrale nella produzione teatrale inglese del Novecento ma decentrato. Era chiaramente un operaio della scrittura, uno del quale non è difficile ipotizzare che alle sette del mattino si infilasse la tuta da metalmeccanico per stare otto ore con pausa pranzo alla macchina da scrivere. Ha scritto su tutto, la vecchiaia, la morte, la famiglia, la violenza, il lavoro, i conflitti sociali, il fanatismo religioso, gli amori falliti, e opere sociali, opere intimiste, grandi lavori collettivi da centoventi interpreti.
La cucina è per trenta attori, ridotti dal regista Valerio Binasco a ventiquattro, che è pur sempre un bel numero in questi tempi di ristrettezze economiche per le scene di prosa. Tuttavia lo spettacolo è una produzione dello Stabile di Genova, in cui assieme ad attori di esperienza lavorano i giovani provenienti dalla Scuola di recitazione del teatro. Con questo allestimento dunque, lo Stabile, divenuto da poche settimane Teatro nazionale, assolve a due compiti fondamentali per un’istituzione teatrale pubblica: promuovere i giovani attori che forma al suo interno e offrire alle platee una creazione artistica che i privati molto difficilmente potrebbero assicurare.
La scelta del testo di Wesker è dettato da una considerazione ovvia e da una desunta: la prima è che il gran numero di ruoli maschili e femminili impegna un’intera classe accademica; la seconda è che il dramma, pur essendo di sessant’anni fa, si pone come piuttosto attuale. È vero che la Storia non serve mai gli stessi piatti, però spesso li serve raffreddati o riscaldati. E La cucina è un discorso sullo sfruttamento dei lavoratori e sui problemi di integrazione che segnano una società multietnica. I ragazzi della Scuola affrontano così, tutti insieme, un testo molto solido, dai dialoghi scritti con grande abilità, che si occupa di temi contemporanei. La Londra anni Cinquanta da padronato delle ferriere che ferocemente sfrutta l’immigrazione generata dalla decolonizzazione e dalla povertà dei paesi dell’Europa meridionale (Italia compresa) è la stessa di oggi che, mutatis mutandis, spreme l’immigrazione causata dalla globalizzazione e dalla povertà dei paesi meridionali (Italia compresa). Il ristorante è un luogo perfetto: il destino dei poveri è di far mangiare i ricchi. Wesker descrive un mondo di sguatteri, cuochi, aiuto cuochi, camerieri di varia provenienza impegnati in una brutale e grottesca danza di piatti, pentole, mestoli, coltelli, fornelli, e risse, litigi, inimicizie, rivalità, amori. Una macchina infernale di produzione mangereccia al servizio di un’umanità gastrica, ieri come oggi che siamo invasi fino alla nausea da programmi televisivi di culinaria e da incessanti primissimi piani pornogastronomici di cotechini, budini, branzini, frittelle, tagliatelle, fegatelli, gamberi, paccheri, pizzoccheri. Un’orgia alimentare per la soddisfazione intestinale di cui Wesker mostra il dietro, anzi il didietro, il culatello. Il capitalismo è una flatulenza della Storia.
Il livello generale dei giovani interpreti è piuttosto alto, dà speranza per un futuro di teatro oltreché di osteria, formare bravi attori è sempre meglio che preparare buoni camerieri anche se spesso i due lavori si uniscono per necessità del singolo artista. E se proprio uno volesse mantenere la metafora gastrica, sia Wesker che l’allestimento di Binasco si mantengono sul piano dell’ironia, la quale è un umorismo che ha il suo campo operativo dalla cintola in su, mentre il ridicolo lavora sotto l’ombelico. Un’ironia al fiele, naturalmente, che il regista spalma per tutto lo spettacolo lavorando sugli attori, sulla loro interpretazione, sui tempi di battuta, e montando il notevole traffico in scena con un procedimento di organizzazione della disorganizzazione. Attraverso improvvise variazioni ritmiche, la rappresentazione arriva a un finale doloroso ma non tragico ed invece sarcastico perché in questa situazione neppure la morte degli amanti, la meravigliosa morte shakespeariana, ha dei diritti, figurarsi questa povera umanità sgangherata dalla sguaiata truffa del sistema padronale e capitalistico al quale è asservita.
Applausi forti, sinceri, ripetuti al teatro Eliseo di Roma per questa compagnia di giovani.