“Grotesk – Ridere rende liberi” di Bruno Maccallini, anche interprete, e Antonella Ottai. Al teatro La Cometa di Roma
E la sera a Berlino
Bruno Maccallini ha ragione quando spiega, alla fine del suo spettacolo Grotesk, che il saggio di Antonella Ottai da cui è partito, Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti, meriterebbe d’essere adattato per un film. È la storia dei grandi e acclamati artisti ebrei del kabarett tedesco degli anni Venti e Trenta che vengono inghiottiti dal Satana nazista nei suoi immondi ventri. Nei campi di concentramento, in particolare di Westerbork e di Theresienstadt (o Terezin), si allestivano spettacoli in condizioni estreme, subumane.
L’attrice Nava Shan, che fu internata a Terezin, raccontò: “Facevamo le prove in una soffitta di un edificio dove viveva della gente cieca… Il giorno in cui doveva esserci la prima trovammo lì dentro un mucchio di cadaveri, 40, 50, 100, non saprei. Ma noi eravamo decisi a fare lo spettacolo. Era vitale per noi andare in scena. E poi era stata invitata talmente tanta gente. Ed ecco che improvvisamente a un attore venne un’idea. Facemmo uscire tutti i ciechi dalle stanze e li posizionammo sulle scale, tipo guardie d’onore, con le mani tese in avanti. E i cadaveri furono fatti passare da un cieco all’altro, e quando tutti erano stati trasportati di sotto, vennero portati via e lo spettacolo cominciò puntuale”.
Grotesk – Ridere rende liberi (in opposizione ovviamente a “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi) che Maccallini ha scritto assieme alla Ottai e che interpreta nel ruolo del titolo sulla scena del teatro La Cometa di Roma, incomincia nella Berlino di prima dell’inferno, durante gli anni di Weimar. Grotesk è un personaggio – sintesi degli artisti ebrei di kabarett, un attore, un cantante, un comico, un conferenziere, un maestro di cerimonie, un mentalista, un ventriloquio, un mago che offrirà ai gentili signori e signore della Cometa un vero numero di levitazione di una ragazza. È soprattutto un provocatore con il ghigno stampato su denti sanguinanti di scherno, batture mordaci, barzellette ebraiche, humour da fracasso di vetri rotti. Lo accompagnano in scena Stefano Costantini alla tromba, Flavio Cangialosi al contrabbasso, pianoforte e percussioni, Pino Cangialosi al pianoforte, fagotto, percussioni, fisarmonica su musiche di quest’ultimo e di Max Hansen, Friedrich Holländer, Jacob Jacobs, Hermann Leopoldi, Paul Lincke, Martin Roman, Kurt Weill. È un mondo di canzoni anticapitaliste come La ballata di Mackie Messer di Weill – Brecht (“Mostra i denti il pescecane / e si vede che li ha / Mackie Messer ha un coltello / ma vedere non lo fa”); di contestazioni politiche violente alla Walther Mehring, poeta espressionista, dadaista, autore di cabaret, antinazista; di critiche feroci alla società tedesca firmate dal geniale Kurt Tucholsky, scrittore di famiglia ebraica, poeta, pamphlettista, suicida, antinazista radicale anche lui che però aveva inventato negli anni Venti il personaggio dell’arrogante, ipocrita borghese ebreo signor Wendriner. Gente contro tutto e tutti, autori satirici perché idealisti offesi. Sono monologhi contro la famiglia, i capitalisti, i soldi, in un mondo che sta fra la celebre diva del music-hall Mistinguett e il sottoproletariato criminale del romanzo di Alfred Döblin Berliner Alexanderplatz.
Poi arrivano i nazisti e questo è il secondo tempo dello spettacolo, quando dalla decadenza weimariana si passa alla tragedia: prima il divertimento stava sopra il dramma e lo copriva, ora sta sotto e lo rivela. Questo forse è il momento più difficile per Maccallini, il quale lo risolve con molta abilità interpretativa, sfruttando anche l’intervallo per mutare il clima dello spettacolo, soprattutto ripresentando i suoi modi e il suo volto sardonici stavolta però come poggiati su un fondo estremamente amaro. Ecco che il suo monologare, deridere, scherzare e cantare non sono più di un artista che danza sul tramonto di una civiltà, ma d’un uomo nella camera della morte. Non è uno spettacolo semplice, ed è vieppiù reso articolato da una serie di proiezioni di filmati e scene di pellicole d’epoca. Alcune lungaggini, alcuni tempi troppo dilatati ed evidenti problemi di luci sono inconvenienti che dovrebbe sparire nel corso delle repliche.
All’inizio dello spettacolo appare la scritta “Und Abends in die Scala” (“E la sera alla Scala”). È il titolo di un film musicale del ’58 di Erik Odie, interpretato da Caterina Valente. Caterina Valente, cantante, attrice e show-girl, è stata dagli anni Cinquanta una star internazionale, un simbolo del cosmopolitismo novecentesco, che è cosa molto diversa dalla globalizzazione. Il cosmopolitismo è una grande invenzione europea di arte e di vita che trovò nella Berlino degli anni Venti un mezzogiorno di fuochi straordinari prima che il nazionalismo tedesco del Lebensraum, lo spazio vitale, lo uccidesse nella notte dei cristalli.