“Incognito” di Nick Payne, regia di Andrea Trovato, con Graziano Piazza, Anna Cianca, Giulio Forges Davanzati e Désirée Giorgetti. Al teatro La Cometa di Roma
Sotto la memoria niente
Ci sono due aspetti contrastanti nella commedia Incognito del giovane autore teatrale inglese Nick Payne: l’argomento, il cervello umano, che è affascinante; e lo svolgimento, ossia la drammaturgia, il cui meccanismo alla lunga (anzi, alla corta) risulta ripetitivo. Regia di Andrea Trovato, interpretazione alla Cometa di Roma d’un buon quartetto di attori – Graziano Piazza, Anna Cianca, Giulio Forges Davanzati e Désirée Giorgetti – questo lavoro è montato per vicende alternate che si svolgono per giunta in periodi storici diversi. Quindi si va avanti e indietro nel tempo, si passa dall’episodio di una storia a quello di un’altra, si deve stare sempre attenti a chi interpreta chi, ché i quattro attori fanno ventuno personaggi. La regia riesce a chiarire, seppure con un po’ di sofferenza e di artifizi, dove, come quando si sta, con chi e perché. Però insomma, il complicato è nemico del complesso.
Le prime due storie sono reali: nel 1955 un patologo americano, Thomas Stoltz Harvey, eseguì l’autopsia sulla salma di Albert Einstein e ne approfittò per rubarne il cervello, sezionarlo e studiarlo. Ovviamente non vi trovò né un casco di banane né la luce divina, ma agli scienziati sono permesse ingenuità interdette a un letterato che andasse cercando nel salotto proustiano di Madame Verdurin i valori della pressione sanguigna del signor Swann quando incontra Odette. La seconda vicenda riguarda Henry Molaison, un paziente affetto da epilessia che, dopo un’operazione di asportazione di parte del cervello, cadde in una grave forma di amnesia e non fu più in grado di accumulare, preservare o recuperare nuovi ricordi per più di qualche minuto. Vero che gli studi su di lui permisero alla neuropsicologia di progredire, ma ci si chiede se gli scienziati si aspettassero un miglioramento a cincischiare col bisturi nel cranio di un essere umano e a buttare nel secchio dell’immondizia un po’ di materia grigia. Tuttavia, prendere in giro le superbie e le presunzioni di certi scienziati è un gioco facile di generalizzazione (come dire che tutti gli avvocati sono azzeccagarbugli: è falso, solo la maggior parte). È nella terza vicenda, stavolta immaginata, che si esercita il sacrosanto valore del dubbio, valido per tutti, scienziati e umanisti, attraverso il personaggio di Martha, una neuropsicologa che si fa una domanda: chi vive meglio, i normali che non dimenticano – rancori, odi, prepotenze – o i suoi pazienti affetti di amnesia? Ci si potrebbe anche chiedere, per esempio: chi sta meglio? Un uomo senza gambe che non rischia di cadere in una buca di Roma o gli altri? L’argomento (il cervello umano) è talmente interessante in sé che riesce a prima vista a nascondere l’esilità dei ragionamenti che Payne mette in bocca ai suoi personaggi.
Il dramma non ha la forza di riflettere sul concetto di memoria, di arte della memoria e sull’immensità di problematiche che contiene, filosofiche, letterarie, teologiche, spirituali. Né di sintetizzare teatralmente un simile aspetto della condizione umana. Vivacchia carinamente sulla domanda se gli uomini sono altro dai loro ricordi. Però sarebbe ingiusto pretendere da un testo teatrale più di quanto offre. L’importante è che: la commedia ha avuto successo a Londra e a New York, gli attori italiani sono abili, la regia organizza bene il traffico in scena, il tutto dura un quarto d’ora di troppo, gli spunti per la conversazione di dopo teatro sono praticamente inesauribili, i ciliegi sono in fiore. Come l’anno scorso, se la memoria non inganna.