“Circus Don Chisciotte”, testo e regia di Ruggero Cappuccio anche interprete assieme a Giovanni Esposito. Al teatro Eliseo di Roma
La giustizia erra a Napoli
Il modo migliore di fare il Don Chisciotte è non fare il Don Chisciotte. Soprattutto al cinema, sul Cavaliere dalla triste figura aleggia una sorta di maledizione e comunque di impossibilità, come se questo picaro seicentesco non amasse andare per le vie della modernità. Se esiste il film di Georg Pabst del ’33, ce n’è uno interpretato da due veri attori picareschi italiani, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia che in Don Chisciotte e Sancio Panza dettero una delle loro migliori prove. La pellicola ovviamente sparì dalla circolazione ma attualmente si trova in versione integrale su YouTube. I guai grossi li hanno avuti Orson Welles con il suo Don Quixote che fu una delle più incredibili e incompiute avventure cinematografiche del Novecento, e Terry Gilliam il cui film, The Man Who Killed Don Quixote saltò per una serie di disastri durante le riprese raccontati in un documentario (Lost in la Mancha di Keith Fulton e Louis Pepe). I personaggi di Cervantes sono da trattare con le pinze.
A teatro nel corso degli anni si è visto un bel numero di adattamenti per la scena e in generale, più si tenta di essere fedeli all’originale e più il Cavaliere errante scappa in sella al suo destriero Ronzinante, seguito di corsa dal fido scudiero. Forse una delle ragioni possibili è che Don Chisciotte e Sancho Panza non sono personaggi ma maschere. La loro natura trascendente partecipa di un tragico assoluto che nel mondo, il luogo degli accadimenti, si manifesta come grottesco surreale. Ma anche il teatro è un luogo degli accadimenti e per lanciare nell’azione scenica l’hidalgo e il suo compagno senza che si ribellino bisogna afferrarne la natura. Non ha molta importanza se i fatti narrati drammaturgicamente non corrispondono a quelli immaginati da Cervantes. Conta che Don Chisciotte e Sancho Panza restino se stessi, cioè assoluti, indipendentemente dal contesto. Arlecchino non muta mai, quale che sia la vicenda in cui si ritrova, e in nessun modo si deve spingerlo a cambiare. La maschera, paradosso ingovernabile, è movimento e fissità.
L’impressione nel Circus Don Chisciotte all’Eliseo di Roma, è che Ruggero Cappuccio – autore, regista e interprete nel ruolo del titolo – abbia voluto proprio mostrare l’immutabilità del Cavaliere errante, un essere che cammina per le strade del mondo e dei secoli restando interiormente fermo, perché ciò che conta non è cambiare – lo spirito non cambia – ma attraversare la Storia senza smentirsi. Allora la maschera stavolta si chiama Michele Cervante, dice d’essere discendente del Saavedra passato nel 1575 per Napoli, è un dotto studioso partenopeo di letteratura che passeggia sui binari di una stazione ferroviaria dove i treni non arrivano più. S’imbatte in Salvo Panza, un nullatenente, un infermiere disoccupato, un marginale. Poi arrivano due ristoratori in disgrazia, un duca decaduto, una principessa siciliana appassionata di astronomia e di conseguenza con lo sguardo volto al cielo. E vi è miscuglio di dialetti, di parlate, raffinate citazioni letterarie, ma soprattutto il principio che filosoficamente regge tutta la narrazione di Cappuccio è lo stesso di Cervantes, la giustizia. Il senso di giustizia misura con precisione la distanza fra gli uomini come sono e gli uomini come dovrebbero essere. Lo spettacolo è barocco nel suo essere delirio, deformazione delle forme, ondulazione, zig-zag, rifiuto degli angoli retti d’un falso razionalismo che vuole addomesticare l’umanità, condannarla alla finta purezza di un malvagio ordine costituito e prevaricatore, e impedirle la perlustrazione di quell’immenso, inesplorato negozio di rigattiere che è l’anima, piena di meravigliose carabattole di ebanista fantastico.
Circus Don Chisciotte è appunto un circo, una sarabanda piena di cose e disordinata, uno stare in equilibrio precario eppure stare su una drammaturgia volutamente sbilenca, illogica, grottesca come i mostri di Bomarzo e le teste dei terrestri, carica di sovrapposizioni, digressioni, ghirigori, sofisticherie linguistiche, preziosismi lessicali, voltolamenti dell’azione. Mutilazioni della coerenza soprattutto, quindi questo è uno degli spettacoli più naturalistici che vi siano in circolazione attualmente.
Bravissimo attore Giovanni Esposito che fa Salvo Panza, velocissimo, assurdo, barocco, imprevedibile, divoratore di teatro come un picaro affamato davanti a un piatto di maccheroni. È giusto, Sancho rappresenta l’istinto dell’uomo grossolano in cerca del suo interesse. L’interesse è movimento e affanno ridicoli. Più fermo in scena Cappuccio, più aulico perché Don Chisciotte incarna la disinteressata nobiltà d’animo. Nel disinteresse l’azione si riscatta dalla materialità e procede dall’osservazione, stato fondamentale dell’ironia. In scena anche Giulio Cancelli, Ciro Damiano, Gea Martire e Marina Sorrenti, molto a loro agio in questa messinscena che è come la drammaturgia, priva del contegno sul quale sono in genere sedute le pièce bien faite rispettose delle regole. Belli i costumi di Carlo Poggioli così come le scene di Nicola Rubertelli: non riproducono una stazione ferroviaria ma un luogo della mente, forse dalle parti della regione di Castilla – La Mancha dove è situata Toledo che, come è noto, sta a Napoli.