“I malvagi” da Dostoevskij, ideazione e regia di Alfonso Santagata anche interprete. Al teatro India di Roma
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“Non ho ucciso delle persone, ho ucciso un principio”. È da questa frase di Raskòl’nikov, che ha ispirato saggi, da come viene detta in scena, che si può tentare una chiave di lettura dello spettacolo di Alfonso Santagata I malvagi, andato in scena al teatro India di Roma. Il lavoro si ispira, oltre che a I demoni e a Delitto e castigo, anche a un testo meno frequentato di Dostoevskij, Memorie di una casa morta, nel quale l’autore racconta dei suoi anni di reclusione in una galera della Siberia meridionale per scontare la colpa di aver frequentato il circolo di Petraševskij, propugnante un socialismo utopistico. Un posto di delinquenti, di dannati, di esiliati, di sofferenti messi ai lavori forzati e di carcerieri. Santagata quindi starebbe facendo un teatro senza la “a”, tetro.
Eppure non è così. Laddove l’autore russo trova attraverso una parola cristiana l’umanità, la profondità, la redenzione, la fratellanza anche fra questi abitanti della città dolente, il regista e attore si china su questa perduta gente con un senso morale laico che conferma il valore assoluto del principio. E in questo modo racconta di noi suoi contemporanei che sovente diffidiamo del pensiero religioso ma non possiamo, per fortuna, ignorare l’idea di un umanitarismo che sovrasta il singolo e ci accomuna tutti nell’unico destino della nostra specie. I pazzi, gli instabili, i cospiratori, i fanatici, i rivoluzionari, gli idealisti, i nichilisti, i Raskòl’nikov assassini di fronte al giudice istruttore sono dei condannati. Ma la loro è una condanna in cui si insinua uno dei più complessi e indecifrabili moti dell’animo umano, la misericordia che tutti ci coinvolge e che su tutti gli uomini del passato, del presente e del futuro si distende. Siamo ieri come oggi costruttori delle nostre prigioni siberiane e dobbiamo avere pietà di noi stessi. Una pietà laica. Di questo a teatro Santagata vuole parlare.
Tuttavia della condizione umana, immutabile e quindi sempre contemporanea, Santagata offre uno spettacolo tecnicamente pregevole, soprattutto sotto l’aspetto interpretativo, ma stilisticamente invecchiato. Il tema è sempre attuale, è un argomento dell’oggi, calato però in un modo di mettere in scena che si fonda su stilemi d’una ricerca teatrale passata, cristallizzata trent’anni fa.
La contraddizione è soltanto apparente: un contenuto eterno, immutabile, chiede sempre forme nuove come il grido della Medusa caravaggesca evolve nell’ottocentesco urlo di Munch. Se la trasformazione non avviene, il teatro rischia di diventare testimonianza quando invece la sua ragione sta nell’accusa.
In scena con Alfonso Santagata, Carla Colavolpe, Massimiliano Poli, Tommaso Taddei, Giancarlo Viaro.