“Stabat Mater” di Antonio Tarantino, con Maria Paiato diretta da Giuseppe Marini. Al Piccolo Eliseo di Roma

Stabat Mater

Nell’oscurità di una puttana vergine

Maria Paiato è un’attrice straordinaria. Lo sanno tutti. Si può anche analizzare minuziosamente la sua tecnica recitativa. La sua capacità mimetica, la sua arte interpretativa. I gesti, i movimenti, la voce, il tempo di battuta, il lavoro sulla lingua, sui dialetti, le intonazioni, la dizione, i silenzi, la presenza, come prende la luce, come cammina e insomma costruire su di lei un manuale dell’attore. Ma tutto ciò in fondo riguarda la tecnica e l’uso che lei fa di quel dispositivo motorizzato di nervi, muscoli e ossa che è un corpo umano. Uso intelligentissimo che però a studiarlo, neanche questo basterebbe a spiegare quanto avviene in scena quando c’è lei. Di Maria Paiato sfuggirà sempre qualcosa. Perché è una poetessa impeccabile, una maga perfetta dell’arte, un puro pensiero di teatralità. Evidentemente si nasce imparati e se nel corso della vita ci si riveste di metodo, si diventa un enigma: perché il buon dio nella sua imperscrutabile ingiustizia, o giustizia, elargisce i suoi favori solo a certuni?
Un regista che dispone di un’attrice con tali possibilità espressive deve avere un’idea di messinscena all’altezza di queste possibilità. Giuseppe Marini che la dirige al Piccolo Eliseo di Roma nello Stabat Mater, monologo scritto da Antonio Tarantino, le ha messo a disposizione una grande trovata: una sorta di passerella circolare sopraelevata di circa mezzo metro (scenografia di Alessandro Chiti), un’idea semplice ma quanto efficace che permette alla Paiato tutta una serie di movimenti. Non quindi un monologo statico come se ne vedono tanti, ma un andare e venire, un salire e scendere, sedere e rialzarsi, abbassarsi ed elevarsi, girare in senso orario e antiorario. Il personaggio monologante, di nome Maria Croce, imita e deride altri personaggi, una suora, una maestra, un certo Giovanni che deve venire e non viene, la moglie del certo Giovanni. Ed è interpretazione nell’interpretazione, l’attrice è personaggio che diventa attrice per altri personaggi. Così tutto si mischia seppure resta chiaro, distinguibile. Il testo si fa mobile e teatralmente significativo il monologo di questa Madre, una madonna di bassifondi, una ex prostituta, puttana vergine, femmina sguaiata e dignitosa, volgare e pudica, genitrice d’un figlio di padre fuggito, mater dolorosa d’un giovane cristo in croce arrestato per terrorismo. E lei sulla passerella circolare, chiusa come gabbia per malconcia leonessa di circo di paese, gira e gira in tondo parole brutte e belle, errori, rancori, furori, immigrata sudista a Torino chissà quanti anni fa, straccivendola di mestiere oggi, con indosso certo vestitino da peripatetica disarmata e chioma bruna da sventolare come richiamo a bordo strada.
Tragica e comica. Dal fondo del pozzo, l’eco d’uno sghignazzo. Non fa più la vita, dice, ma fa una specie di morte, sempre a bordo strada. Della vita. Bestemmia e miseria, razzismo e cattiveria, alcol di bassa marca e fornicazioni a minutaggio, un corpo come un vecchio taxi, un frasario insozzato di slogan pubblicitari, sogni televisivi disperati, disperati, disperati. Il suo cristo in croce è l’unico mezzogiorno della sua giornata terrestre e ormai si sa che s’è avviato alla controra. Il resto è notte.

Marcantonio Lucidi,
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