“Chapeau, ovvero i misfatti dell’istinto” di Roberto Russo, regia e interpretazione di Gianni De Feo. Al teatro Lo Spazio di Roma

Gianni De Feo

La macchina celibe del caos

Questo è un caso, anzi questo è un caos, in cui le musiche salvano uno spettacolo e si pongono in contraddizione con la legge per la quale il compositore dovrebbe scrivere una partitura che non sovrasti artisticamente quanto si vede in scena. Insomma, quando le musiche sono la cosa migliore di un allestimento, vuol dire che c’è qualcosa che non va.
Eppure Gianni De Feo, regista e interprete solista di Chapeau ovvero i misfatti dell’istinto, è un bravo showman. Possiede tecnica alla recitazione e al canto, presenza scenica, bella voce, ottima dizione, ma è eccessivo, carico di maniere, esagerato come una crema di whisky alle sette del mattino. Notevole è la sua vitalità, ma è un’energia debordante, noncurante dei ritmi teatrali e dei tempi di un monologo che qui fluisce senza sosta, senza pause. Sembra che per l’artista importante sia soprattutto l’esibizione delle sue capacità come d’un mangiatore di fuoco che trasmoda e incendia la tenda del circo.
Il testo di Roberto Russo non è da meno, tutto inzeppato com’è di riferimenti a George Orwell, citazioni del kabarett berlinese, rimandi decadenti a Weimar, arriva pure il Fabrizio de André di Un blasfemo (“Mi cercarono l’anima a forza di botte”), ci stanno anche Kafka e forse pure Il mondo nuovo di Aldous Huxley, s’evocano Orfeo che perde Euridice e Zidane che dà la famosa testata a Materazzi durante la finale mondiale del 2006. Al punto che tocca leggere il programma di sala per raccapezzarsi fra il capo e la coda di quanto pare si racconti. A lume di naso, il protagonista vive in un mondo distopico, una società strutturata come un alveare in cui ognuno è controllato. Ha la sindrome di Tourette, patologia neurologica caratterizzata da tic motori e vocali, ossessioni, compulsioni, iperattività, distraibilità e impulsività. Il soggetto soffre anche di discalculia, un disturbo nella rappresentazione dei numeri e nel far di conto che il potere vede come devianza pericolosa e attentato all’ordine costituito. Quindi questo cittadino non conforme, che alla carceraria scientifica organizzazione sociale contrappone la libertà dell’istinto individuale, è finito in un lager.
Una figura simile giustifica in parte gli eccessi di De Feo, ma è dismisura più dell’attore che del personaggio. E il testo cerca giustificazione al proprio disordine narrativo nel suo messaggio e nella sua natura surreale e grottesca. Ma il surreale, per essere inteso, necessita di una logica, una rigorosa logica dell’assurdo che governi un mondo di fantasia sul quale l’autore ha la grande libertà di stabilire le regole e la costrizione di rispettarle. Altrimenti l’idea di un caos creatore produce in genere una chimera sterile. Al più, una macchina celibe quindi autoreferenziale, che inutilmente consuma più energia di quanta ne produce.
Ci si chiede se Gianni De Feo abbia cercato di accompagnare il disordine della drammaturgia con un’estetica anarco – individualista del suo show (so che il testo è scombinato ma mi sta bene così perché faccio spettacolo dello scombinamento in chiave romantica e decadente) oppure se si tratta della sua maniera peculiare. Al di là del dubbio, è vero però che in alcuni momenti la prova dell’artista è efficace e che il suo stile estrae dal testo una paradossalità stravagante e comica, come nel caso dei passaggi su Orfeo e Zidane.
In ogni caso, il solo filo che tiene insieme tutto, che introduce, svolge e conclude, è la musica, al servizio dello show e al contempo autonoma, ascoltabile senza vedere.

Marcantonio Lucidi,
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