“Il nullafacente” di Michele Santeramo anche interprete assieme a Silvia Pasello. Regia di Roberto Bacci. Al teatro biblioteca Quarticciolo di Roma
Oblomov vive e non combatte con noi
Andato in scena al teatro biblioteca del Quarticciolo di Roma con la regia di Roberto Bacci, Il nullafacente di Michele Santeramo racconta di una specie di Oblomov di oggi, senza però la grandezza tragica del personaggio di Gončarov ed invece caratterizzato da una rassegnata filosofia sull’inutilità dell’agire. Mentre Oblomov combatteva contro se stesso, il nullafacente si oppone al modo di vivere che la società attuale impone, improntato sull’efficienza, la fatica, il lavoro, la produttività, i soldi, il consumo. E qui vi è una prima questione perché il modello in vigore di questi tempi è solo apparentemente fondato sull’efficienza, il lavoro e quanto ne consegue. In effetti il fenomeno che sembra connotare questi anni è la distorsione progressiva nel rapporto fra lavoro da una parte, dignità e libertà dall’altra. Se il lavoro tende a scomparire ma l’etica condivisa (di stampo marcatamente protestante peraltro) continua ad attribuirgli ipocritamente i valori di dignità e libertà, ecco che chi non ha un’occupazione, perché gli viene negata, è indegno e non merita di essere libero. Il sistema che asserviva l’uomo mediante una fatica eticamente giustificata, adesso lo umilia attraverso la negazione di quella fatica ma in grazia della stessa etica. E gli sottrae diritti.
Non credere all’etica del lavoro è la posizione del protagonista. Non si tratta però né di un atteggiamento aristocratico né, apparentemente, del risultato di una riflessione sociologica. È un dato di fatto che Santeramo inserisce in una storia d’amore giunta a un punto estremo. La moglie del nullafacente è una malata terminale. Siccome la donna è condannata, allora la certezza che non c’è nulla da fare deve essere acquisita in modo letterale e diventare una pratica al negativo: niente cure, niente medicine, nessuna iniziativa salvo quella di stare fermi e approfittare del tempo rimanente. Il guaio però è che le cose intorno avvengono, il proprietario insiste spasmodicamente per avere i mesi di pigione arretrata, anche il medico per parte sua è ostinato, il fratello della malata pretende che il nullafacente faccia qualcosa.
Il dramma di Santeramo non contiene un intreccio, uno svolgimento, una crisi (l’intero testo è la crisi), piuttosto si configura come un apologo che trova la sua morale nel dialogo fra il protagonista e un bonsai: l’albero nano è costretto nella riduzione di se stesso e a quella condizione adatta la propria natura e la propria vitalità. Il tempo è la misura di tutte le cose e di ogni felicità, sprecarlo in favore di una crescita inutile, che non porta da nessuna parte è delittuoso. L’immobilità diventa, tutto sommato, un aspetto dell’immortalità, la quale è una prospettiva zen che Santeramo però cala non in un monastero giapponese, bensì in un contesto occidentale mondano di agitazione e di moralismo del fare.
Teatralmente, il risultato è uno spettacolo ombroso (anche sotto l’aspetto illuminotecnico) in cui gli attori si muovono malinconicamente, come fantasmi stanchi forzati alla densità della vita. La regia di Roberto Bacci è semplice, curata, non va in cerca di grandi idee, privilegia il testo, organizza uno spazio scenico quasi nudo – un tavolo, qualche sedia, una poltrona – e chiede agli attori una recitazione corretta, senza forzature. Tuttavia Santeramo, impegnato anche in scena, carica a tratti il suo personaggio del nullafacente d’una certa rabbia e ci si chiede se non si tratti di un eccesso interpretativo. La collera è oggettivamente uno spreco di energia e di tempo che un bravo oblomovista dovrebbe evitare come una pallida fanciulla la peste nera. Evidentemente il nullafacente non ha ancora imparato perfettamente il mestiere. Giustamente esangue e spettrale è la malata di Silvia Pasello, come un fiore di ciliegio rosa pallido troppo diafano per sopravvivere. Accanto ai protagonisti, lavorano Francesco Puleo (il fratello), Tazio Torrini (il Medico), Vittorio Continelli (il proprietario della casa). Lo spettacolo quindi è fatto come si deve e il messaggio c’è ma, come se il carattere del protagonista avesse condizionato la vitalità della drammaturgia, ha un che di laconico, una sorta di avarizia comunicativa, un po’ da bollettino meteorologico. Domani pioggia, prendete l’ombrello.