“L’uomo dal fiore in bocca e altri strani casi”, cinque novelle di Luigi Pirandello dirette da Patrick Rossi Gastaldi. Con Edoardo Siravo. Al teatro Ghione di Roma
Io pirandello, tu pirandelli, egli pirandella
di qua e di là
Il teatro inteso come servizio, servizio culturale. Edoardo Siravo è il protagonista al romano teatro Ghione di L’uomo dal fiore in bocca e altri strani casi, ossia di una serie di cinque novelle più alcune poesie pirandelliane messe in scena da Patrick Rossi Gastaldi.
Pirandello è un autore del quale, contrariamente per esempio al Manzoni, difficilmente qualcuno dirà o scriverà che mette noia, che è pesante e provinciale. Su di lui s’è posato un consenso generale che lo pone al riparo dal diritto di mugugno. Ma non è sempre stato così. Il grande scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry ebbe parole severe sostenendo che perfino uno studente diciassettenne di filosofia, che digerisce male la materia e fa una gran confusione, la sapeva più lunga del drammaturgo girgentino. E trattava Pirandello da imbroglione che produce “un’emozione truccata, una vertigine falsa. Viene applicato alla definizione comune della parola «verità» ed «esistenza» tutto un ragionamento che è applicabile solo alla sua definizione molto astratta in filosofia. Non si tratta assolutamente più della stessa questione. Vengono così sconvolte nozioni che non devono essere sconvolte perché sono vere sul loro piano che è quello dell’esperienza sensoriale. In metafisica, al contrario, si definirebbe diversamente questa esistenza, ma proprio perché non si tratta più della stessa cosa. L’artificio drammatico consiste nel considerarle valide aggirando le definizioni. In questo modo vengono scalzate tutte le nozioni comuni dello spettatore che a questo punto viene preso da una grande vertigine. È solo un trucco”.
Si può essere d’accordo con questa critica o respingerla, ma ha il pregio di svelare con semplicità un aspetto centrale del pirandellismo: la trasposizione sul piano metafisico di nozioni valide sul piano sensoriale. Scrive Pirandello nella novella La carriola una riflessione riportata nel volantino dello spettacolo: “Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina… Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire”.
Un’argomentazione che trasforma un’esperienza intima, l’osservazione di se stessi, in un principio universalmente condiviso e determina una relazione fra conoscere e morire che potrebbe essere considerata arbitraria o, per quanto avviluppata di ragionamento, non di maggior acume d’una vecchia massima francese divenuta proverbiale, “Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse” (di Henri Estienne, stampatore, filologo ed ellenista cinquecentesco).
Io pirandello, tu pirandelli il conoscere e morire, egli pirandella la pirandellissima relazione fra vita e forma. Di tutto questo pirandellare lo spettacolo si fa portatore ed anche per questo è un servizio culturale. Rovesciando l’idea del personaggio in cerca d’autore, qui il drammaturgo sta di fronte ai personaggi ed Edoardo Siravo lo restituisce conversando con loro, osservandoli, analizzandoli. Ai ragazzi dei licei, e anche a chi ha dimenticato la scuola, farebbe comodo assistere allo spettacolo perché è piano, chiaro, semplice e sbroglia alcuni intrichi pirandellosi. Recitazione classica senza enfasi di tutti gli interpreti, con qualche concessione giocosa ad atteggiamenti e posture di maniera, tutto messo su con buona grazia. Siravo fa anche l’uomo dal fiore in bocca – parte tutt’altro che facile – con compostezza e malinconica eleganza, ben spalleggiato da Carlo Di Maio nel ruolo dell’avventore, il quale deve soprattutto ascoltare. Stefania Masala e Gabriella Casali completano un quartetto capace di pirandellare.