“Il penitente” di David Mamet, regia di Luca Barbareschi anche interprete assieme a Lunetta Savino. Al teatro Eliseo di Roma
La legge morale in me, l’inferno fuori di me
Si tratta di una vecchia questione, sta già nell’Antigone di Sofocle: il conflitto fra la legge divina e la legge dello Stato. Naturalmente ne Il penitente di David Mamet, scritto nel 2016, il problema è affrontato modernamente – codice morale dell’individuo ed etica pubblica – attraverso quattro temi che formano la dialettica del dramma: il sistema dell’informazione, la religiosità, la giustizia dei tribunali, l’efficacia della scienza psichiatrica.
Una mano drammaturgica meno abile e precisa di quella di Mamet avrebbe probabilmente creato una sorta di ingorgo tematico, un indigeribile polpettone di argomenti. L’autore però fin dall’inizio applica uno dei migliori stratagemmi per innestare all’interno del suo lavoro una specie di filo di ferro che tenga saldo e chiaro il procedere degli eventi: la donna, ossia la moglie del personaggio principale – uno psichiatra – che arriva fin dalla prima scena. E, come regola generale, quando appare la donna, l’azione è certa. Semplificata al massimo è la struttura del testo, montato come una serie di dialoghi a due, il protagonista con l’avvocato (interpretato da Massimo Reale), il protagonista con la pubblica accusa (Duccio Camerini) e, in alternanza, con la consorte (Lunetta Savino). Il secondo abile stratagemma è di porre in discussione la posizione sociale dello psichiatra. Un conflitto è anche una lotta per un posto fra gli uomini. La donna e lo status, con questi due elementi si può costruire una tragedia.
Il penitente è in scena all’Eliseo di Roma con la regia e l’interpretazione nel ruolo del titolo di Luca Barbareschi. Si racconta di uno psichiatra ebreo che rifiuta di testimoniare in tribunale a favore di un suo paziente accusato di avere compiuto una strage uccidendo una decina di persone. Per giunta sospettato di omofobia, il medico subisce una gogna mediatica. Mamet addita l’enorme responsabilità della stampa, colpevole (anche in Italia) di crimini contro la civiltà e la pace. Il regista chiarisce questo aspetto con forza prima che incominci lo spettacolo: il pubblico è accolto con proiezioni sulle pareti e il soffitto della sala dei volti di Enzo Tortora, Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti, tre grandi imputati della giustizia e della stampa italiane che Barbareschi chiaramente individua come vittime della macelleria mediatico-giudiziaria. Ora, se è pur vero che i tre casi sono molto diversi l’uno dall’altro, e questo è un nodo sul quale può appuntarsi una critica alla scelta di queste proiezioni, è altresì indubbio che nel nostro paese si sono svolte negli ultimi trenta-quarant’anni operazioni criminali di cannibalismo politico, giornalistico e giudiziario che hanno alimentato una guerra civile bianca e contribuito a provocare la paurosa frana della convivenza civile e dello stesso concetto di cittadinanza.
Comunque, il protagonista diventa suo malgrado l’antenna ricevente della condanna e della riprovazione generali, l’imputato trascinato alla sbarra (illegittima) della pubblica piazza che attraverso il sistema dell’informazione condiziona e torce la giustizia dei tribunali. Il fatto avviene proprio mentre il “penitente” si è aperto alla coscienza religiosa ebraica e siccome il risveglio spirituale genera obbligatoriamente conseguenze pratiche – altrimenti è chiacchiera, ostentazione, vanagloria – ecco che il conflitto fra la morale individuale e il giustizialismo della polis si innalza a sofoclea tragedia della legge divina contro la legge degli uomini. All’uomo di principi, oltretutto scienziato che dubita, è preclusa ogni via di uscita. L’epitaffio per la morte civile dello psichiatra è terribile e Mamet lo affida ovviamente alla donna, piccola moglietta americana che si dispera per la perdita del suo posto in società, tenta anche il suicidio e accusa il marito di una bontà che ha distrutto la loro vita. Una persona virtuosa e perbene rappresenta allo stato attuale delle cose un pericolo per sé e per i suoi familiari, agisce suo malgrado come un distruttore di vite, certamente diverso nella forma dal killer stragista, non molto nella sostanza.
Spettacolo allestito e diretto in modo semplice e chiaro, con una scenografia minima, un tavolo e due sedie: questo è un ring sul quale si svolgono i duelli dialettici fra il protagonista e gli altri personaggi, uno dopo l’altro. Da regista, Barbareschi ha ben presente che qualsiasi garbuglio e artificio svierebbe lo spettatore dalla concentrazione su un dramma che chiede ferma attenzione ai dialoghi e alla battaglia delle idee. Da interprete, applica con molta convinzione e un’oggettiva capacità tecnica i dettami naturalistici richiesti dal teatro di Mamet. Lunetta Savino nel ruolo della moglie non rischia di fare ombra a Barbareschi. Massimo Reale interpreta l’avvocato con abilità e personalità, dà la battuta al prim’attore senza negare spessore al personaggio.
Lo stile naturalistico può piacere o non piacere ma l’allestimento di Barbareschi rispecchia con molta cura gli intenti dell’autore e si manifesta come una critica profonda, dura a una società del tutto squilibrata e antiumana, degradata dai necrofori della dignità individuale. E il teatro questo deve fare, opposizione, essere peste per gli appestati.