“Ciao” di Walter Veltroni, regia di Piero Maccarinelli, con Stefano Santospago e Francesco Bonomo. Al Quirino di Roma
In nome del padre, del figlio e dell’ardito vanto
Certe volte bisogna resistere alle tentazioni: se a scrivere un testo teatrale è un protagonista della generazione politica responsabile del declino italiano degli ultimi venticinque anni, nonché ex sindaco ascrivibile alla linea di primi cittadini che hanno condotto Roma alle attuali pessime condizioni, egli va trattato per ciò che in questa circostanza pretende di essere, ossia un autore. Ciao è il titolo, molto leggerino, molto veltroniano, dello spettacolo di Walter Veltroni tratto dall’omonimo suo libro autobiografico e attualmente in scena al Quirino di Roma con la regia di Piero Maccarinelli. Il testo è un dialogo fra i Veltroni, il padre Vittorio e il figlio Walter rimasto orfano del genitore all’età di un anno. Il gioco in scena è di lasciare ai personaggi l’età reale: quindi Vittorio, interpretato da Francesco Bonomo, dimostra meno di quarant’anni (ne aveva trentotto quando morì nel ’56), Walter è un sessantenne restituito da Stefano Santospago (che ha sostituito Massimo Ghini). Scelta che funziona e facilita la riconoscibilità dei personaggi in scena. Non un testo teatrale ma letteratura dialogata che Maccarinelli non cerca di nascondere ipocritamente dietro una finta azione di movimenti artificiosi e trucchetti di regia. Utilizza alcuni vecchi filmati in bianco e nero della Rai per dare ritmo alla rappresentazione e chiede agli attori una recitazione semplice, chiara, che metta in rilievo il rapporto dialettico fra i due personaggi senza aggiungere laddove non c’è nulla da aggiungere. E il risultato è una buona prova di attori al di là e al di sopra del testo.
Ogni bravo dilettante ha la sua sudata autobiografia nel cassetto o s’accinge a scriverla con l’illusione che la narrazione dei fatti propri faciliti la bisogna e apra una scorciatoia verso l’arte. Senza mai porsi la domanda sul reale interesse per il lettore o lo spettatore del contenuto (e della forma). Il mondo è pieno di gente come Veltroni che ha avuto la disgrazia di rimanere in età infantile orfana di padre ma non per questo sente urgenze letterarie o drammaturgiche. Anche perché capita che la storia del prossimo sia molto più tragica, avventurosa e intrigante della propria. L’umanità rigurgita di vite straordinarie. Però evidentemente l’autore di Ciao pensa di avere qualcosa di avvincente da comunicare sulla sua famiglia e di poterlo fare con originalità. Ascoltando quanto dicono i due protagonisti, l’impressione è che Veltroni ritenga di appartenere a un’élite dell’intelligenza umana, impressione suffragata da un paio di passaggi d’un programmino di sala. Il primo riguarda il padre, descritto come “un ragazzo timido e geniale”. Il secondo s’interessa del figlio, “diventato forte e geniale”.
Quindi i due geniali si ritrovano. Per farli incontrare a casa di Walter, s’ipotizza che il padre sia un’apparizione proveniente dal passato: questa trovatina epifanica fa quasi tenerezza dal punto di vista narrativo, ma serve a innescare la celebrazione del genitore, grande giornalista di successo, tanto brillante e intelligente, che incominciò a 18 anni come cronista sportivo del Tour de France e morì troppo giovane, a 38 anni, da direttore del Telegiornale. Partecipa da protagonista alla nascita della televisione, inventa Mike Bongiorno, è amico di Alberto Sordi, beve il mondo a grandi bicchierate, nuota con entusiasmo nell’Italia del dopoguerra finalmente libera, piena di speranze e di futuro. Che fosse bravo lo sostengono in molti, che lo dica a teatro il figlio sessantenne muove a indulgenza.
Poi però Vittorio è stato fascista. Eh già. Fu sua la storica, scintillante radiocronaca della visita di Hitler in Italia. Allora lo schema del dialogo fra padre e figlio appare semplice: nella prima parte il padre assurge a eroe della vita, del giornalismo, della modernità. Tuttavia anche l’eroe Achille ha un tallone, un tallone fascista, e questa è la parte seconda, di umanizzazione del personaggio: persino gli dei, o semidei, errano. Si ascolta l’epifania ripetere le solite vecchie scuse: ma siamo cresciuti nel consenso, ma in Italia erano quasi tutti fascisti. Quasi tutti, perché c’era anche fra i giovani (Vittorio aveva vent’anni nel ’38, quando furono emanate le leggi razziali, non era un bambino) chi aveva coraggio e pagava di persona. Fatto sta che a questo punto dello spettacolo, dopo una mezz’ora di egotismo paterno, finalmente il figlio può parlare di democrazia, di etica in politica, di libertà che “è l’unica cosa a cui non si deve rinunciare mai”. Veltroni (Walter) offre una risposta politica, non sentimentale. Quindi presta il fianco a una critica della sua passata azione politica e una verifica di questa azione che può anche arrivare alla formulazione di un’accusa di tradimento degli ideali della sinistra. Ricorda di quando era ragazzo e sembrava che fosse possibile edificare il mondo a somiglianza dei “confusi sogni” della sua generazione: più giustizia sociale, più libertà di costumi, più diritti. Questi sarebbero i confusi sogni. Il tradimento di un politico di sinistra non è prendere i sogni per realtà, ma il possibile per impossibile. E paragonando l’entusiasta Italia post bellica a quella odierna, osserva: “Noi al massimo ci facciamo un selfie”. Un selfie alla condizione generale di disfacimento antropologico e culturale del paese che la generazione politica di Veltroni, destra e sinistra uniti, non solo non ha voluto contrastare ma ha facilitato.
Alla fine Ciao dà idea non di un’opera, per quanto modesta, ma di un’operazione che attraverso il Walter sulla scena serve al Walter politico a proclamare la propria buona educazione etica, temprata al fuoco della battaglia delle idee e della sofferenza esistenziale. Nella vita non si sa mai, lustrare il passato facilita il sol dell’avvenire. Diceva un governante della generazione precedente, Giulio Andreotti, riprendendo la massima del Vicario di Roma cardinal Marchetti Selvaggiani, che a pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina.