“Finale di partita” di Samuel Beckett, con Glauco Mauri e Roberto Sturno, regia di Andrea Baracco. All’Eliseo di Roma
La solitudine del grande attore
Chissà perché il regista di Finale di partita in scena all’Eliseo di Roma ha messo Nagg e Nell, i decrepiti genitori di Hamm, dentro a delle casse, delle specie di feretri, quando secondo Samuel Beckett devono stare nei bidoni dell’immondizia, che è una situazione assai diversa e non c’è bisogno di spiegarne la ragione, lo dice l’intuito stesso dove hanno da finire due vecchi cumuli d’ossa come carcasse d’aspirapolveri ancora vagamente elettrizzate. “In primo piano a sinistra, coperti da un vecchio lenzuolo, due bidoni per la spazzatura, uno accanto all’altro”, recita la didascalia dell’autore.
I programmi di sala a volte dicono di più degli spettacoli che accompagnano e quelli della compagnia di Glauco Mauri e Roberto Sturno danno sempre molta soddisfazione. L’incipit d’una nota del metteur en scène, Andrea Baracco, informa: “Un regista non può non diffidare di Beckett”. Sfiducia reciproca, Beckett stimava assai poco i registi e la pignoleria delle sue didascalie ne è prova lampante a imperituro monito di tutti coloro che si ingegnano alla manipolazione dei significati reconditi dell’opera beckettiana come se s’avesse da estrarre tonsille dalla gola dei personaggi. Una collezione di sforzi analitici, esegetici, ermeneutici si concentra nel programma di sala e fa rumore d’ossa cave seppur dei migliori intellettuali. Appendicectomie di pensatori. George Steiner: “Lo scrittore afferma che la verità viva non è più esprimibile”. Salman Rushdie: “E questo in fondo è il grande tema di questo grande scrittore, l’io del quale egli non sa nulla, l’io che si trova al di là del cappello di Malone…”. Nadia Fusini: “La fantasia di Beckett lavora così: le parole che scrive eruttano da “un fondo oscuro”, che teme”. La verità non più esprimibile nel cappello delle parole che eruttano. Beckett erutta. Più del teatro, bisogna salvare i programmi di sala, inimitabili trafori di niente. Eppure lo disse lo stesso Samuel, il quale pace poco trova presso i posteri, ai suoi attori di Finale di partita: “Fatela semplice, ogni cosa semplice”. Non inventate, non cambiate, non migliorate (come ammoniva Eduardo), un bidone dell’immondizia è un bidone dell’immondizia e da nessuna parte del testo si segnala che si sta in un dramma post atomico, oltrenucleare, tardocatastrofico.
Chi la dice come la trova scritta è Glauco Mauri, grande attore che sembra quasi non curarsi di quanto il regista gli confeziona attorno. Mauri si intrattiene con il suo personaggio – Hamm costretto sulla sedia a rotelle, inabile a stare in piedi – in una dimensione tutta sua di “solitarietà”, per così dire, condizione peggiore della solitudine perché è una solitudine quando ci sono gli altri. A Roberto Sturno nel ruolo di Clov, quello che non può stare seduto, di dargli la battuta, come si dice in gergo, senza pretendere da lui più del mestiere, ché nessuno è costretto a fare meglio di quanto possa. I due interpreti dei genitori, Elisa Di Eusanio e Mauro Mandolini, appaiono anagraficamente fuori ruolo, troppo giovani rispetto al figlio Hamm. Tuttavia va detto che soluzioni qui non ve n’erano perché fra le speciali qualità di Mauri s’annovera anche la straordinaria longevità teatrale. Allora il fascino vero dello spettacolo, malgrado la verità viva non sia più esprimibile, sta nell’offrire al godimento del pubblico la meraviglia di un grande attore. Quanto a Beckett, sarà per la prossima volta.