“Il lavoro di vivere” di Hanoch Levin, regia di Andrée Ruth Shammah, con Carlo Cecchi e Fulvia Carotenuto. Al Piccolo Eliseo di Roma
La fatica di odiare
Una caratteristica del talento è di rendere originale il banale. Il lavoro di vivere di Hanoch Levin (1943 – 1999), considerato il più importante drammaturgo israeliano del Novecento, in Italia mai rappresentato, si occupa del rapporto di coppia, tema abbastanza usurato da far pensare che stasera piove, poi tocca lasciare l’impermeabile al guardaroba altrimenti sgocciola fra le gambe, ci sono sempre difficoltà di parcheggio e insomma per una volta si può marinare il teatro.
Prima di tutto però in scena c’è Carlo Cecchi, diretto da una regia sobria di Andrée Ruth Shammah che sa di avere a disposizione un interprete capace di recitare anche gli orari di apertura e chiusura della Rinascente. Cecchi è un artista libero, elegante, disinvolto, un attore jazz con la sua voce strascicata, esistenzialista, i suoi gesti quasi lenti da uomo della notte, il volto scritto dalla vita e dal teatro. Assieme a questo grande attore, Fulvia Carotenuto forma una coppia tragicomica corposa, potente, a trama fitta, per così dire, di sottigliezze recitative. La loro è una lezione su come si lavora in due sulla scena, in uno spazio stretto peraltro perché la ribalta del Piccolo Eliseo di Roma è in gran parte occupata da un letto matrimoniale. L’azione si svolge interamente attorno al talamo coniugale che è gabbia, rifugio, nascondiglio, antro claustrofobico gonfio di rivendicazioni, rimproveri, rinfacci, cattiverie, battibecchi, rivelazioni dolorose, piagnucolamenti.
I dialoghi di Levin si rovesciano come soda caustica nell’anima del marito e della moglie in scena che sono tubi di piombo intasati di passato da sgorgare. Freddezza dello sguardo, precisione della dissezione, cattiveria eviscerante, il drammaturgo fa soffrire i suoi personaggi come cavie da vivisezione e li espone al pubblico a mo’ di specchi: guardate, umani, cosa diventate quando siete in due da troppi anni. L’inferno è la quotidianità che sostituisce la passione con la fazione, il noi con il tu ed io, l’intelligenza con l’esigenza. Sottotraccia Levin insegna il peso delle parole (grazie anche all’ottima traduzione dall’ebraico di Claudia Della Seta), l’uso trinciante della lingua, l’esercizio del dialogo come duello all’arma bianca. La realtà è cruda, i desideri irreali, gli amplessi non si immergono più nella dolcezza. Il marito minaccia di andarsene. Via, verso un’altra vita, dopo trent’anni di matrimonio, a lui la libertà, le avventure, le altre donne, ha preparato una valigia e l’ha posata ai piedi del letto. Non partirà, non ce la fa, il carcere è un ventre protettivo, fuori è notte, più difficile esercitare il diritto di andarsene che il diritto di contraddirsi.
A un certo momento, nel bel mezzo di questa lotta dove lui la chiama “culo” e “stupido animale” e lei risponde “pene invecchiato”, si presenta un terzo personaggio che in una logica drammaturgica dovrebbe modificare la situazione ed invece nulla cambia. Il nuovo arrivato (molto ben interpretato da Massimo Loreto) rappresenta un intervallo fra due round, una parentesi indesiderata dai litiganti. L’uomo è solo, ha visto la luce accesa nella camera dei duellanti e si è presentato. Vorrebbe un po’ di conforto, qualcosa di caldo da bere e la restituzione di un cappello che aveva prestato qualche anno fa. I due non gli danno retta, non hanno tempo da perdere, lo mandano via, vogliono riprendere la lotta. Nel lavoro di vivere, il mestiere del dolore è il più facile, il più sicuro per sentirsi vivi.