Di Sofocle “Edipo re”, regia di Andrea Baracco, ed “Edipo a Colono” diretto e interpretato da Glauco Mauri. All’Eliseo di Roma
Il visibile dell’invisibile
Quando Glauco Mauri entra in scena come interprete di Tiresia, il veggente cieco dell’Edipo re di Sofocle, nello spettacolo succede qualcosa. Il grande attore non ha bisogno di forzare la voce e i gesti, la sua parola è semplice, carica di significato ed emozione. La sua tecnica è di rara efficacia, i suoi silenzi dicono tanto quanto il verbo sofocleo, lo sguardo è vivo d’una coscienza che conosce l’arte di tramutare l’invisibile in visibile. Mauri è una forza quieta che non esplode ma dilaga. Nell’Edipo a Colono, dove nel ruolo del titolo ha modo dispiegare tutta la sua arte, la parola assume valore di necessità assoluta, viene sempre pronunciata come se fosse l’unica possibile in quel momento. Quindi lo spettatore la riconosce come unica.
Avere allestito (all’Eliseo di Roma) Edipo re con regia di Andrea Baracco come primo tempo e di seguito Edipo a Colono diretto oltreché interpretato da Mauri, permette di osservare due modi di fare teatro: il primo di un regista degli anni Duemila, il secondo di un grande protagonista della nostra scena che debuttò nel ’53 con Orazio Costa e subito dopo andò a fare I fratelli Karamazov con alcuni dei migliori attori di quegli anni, Memo Benassi, Lilla Brignone, Gianni Santuccio ed Enrico Maria Salerno. E la differenza che balza agli occhi è la semplicità. Baracco cerca un sorta di contemporaneità dark sui generis, con i personaggi vestiti in pelle nera, che non arricchisce il capolavoro di Sofocle, non ne esalta il carattere universale. Videoproiezioni, microfoni, una pozza d’acqua sul palco per lavacri purificatori. Il regista chiede a Roberto Sturno nel ruolo di Edipo di agitarsi molto, percorrere su e giù a grandi passi il palcoscenico e urlare in continuazione, come se una tragedia fosse solo furore ed eccitazione. L’intento è talmente ovvio da non offrire sorprese: l’uomo che ha ucciso il padre e sposato la madre deve attraversare l’oscurità, il nero interiore per arrivare alla verità. Ma questa verità sembra per Baracco una verità da interrogatorio in commissariato, in scena si sviluppa un’indagine poliziesca. Siccome però da vari millenni l’assassino è sempre lo stesso, non vi è neanche la speranza di un coup de théâtre con l’arresto del maggiordomo.
Nessuna analisi dei significati profondi del testo, il più noto essendo il rapporto fra Tiresia e Edipo, fra colui che non vede ma sa e colui che vede ma non sa. Ossia fra colui che non necessita della vista fisica perché possiede lo sguardo spirituale e l’altro che si condannerà alla cecità proprio per la colpa di non saper vedere. Quindi in Baracco non si fa la trasmutazione dell’invisibile in visibile, che è il supremo segreto alchimistico del teatro.
Bisogna aspettare il secondo tempo con Mauri protagonista dell’Edipo a Colono. Seduto su dei cubi bianchi che formano una sorta di trono, Edipo esiliato, reietto, vecchio, sorretto dalle sue figlie, è diventato il re di se stesso e della propria saggezza. Non ci sono effetti, artifizi, musiche, rumori, urla, tutto è candido, anche cromaticamente, tutto è semplice, anche interpretativamente. Classico ma non classicheggiante, evidente ma non elementare, emozionale ma non retorico. Gli attori che formano il coro sono incappucciati e chiusi in mantelli bianchi. Danno la schiena al pubblico e i loro volti sono celati. Quello di Mauri è un teatro lineare, nitido, affascinante nel suo fluire quieto e terribile, come di lava d’Etna che scende a valle verso la platea. L’invisibile celato nel vulcano sofocleo adesso è visibile al mondo.