“Una festa esagerata” di e con Vincenzo Salemme, regia dell’autore. Al teatro Sistina di Roma
La tradizione della scrittura scenica
Ridono senza sosta, applaudono a scena aperta, schiamazzano, vibrano di sollazzo e fanno un rumore di motore di carrarmato, deve essere il rombo del piacere. Che Vincenzo Salemme, al Sistina di Roma con la sua nuova commedia comica Una festa esagerata, abbia i favori del pubblico, non v’è dubbio. E questo favore non è un mistero della fede ma il risultato di un capocomicato all’antica napoletano che funziona sempre perché lavora con arte secolare su certi ritmi, su certe velocità, su determinati tempi e controtempi in una miscela di istinto, esperienza e calcolo.
Per tentare di capire Salemme, si può studiare come scrive le sue commedie e come sta in scena in mezzo ai suoi attori. Uno dei segreti dell’autore, regista e interprete è di non concentrare mai le battute comiche sul personaggio che egli riserva per sé ma di distribuire occasioni e possibilità a tutti gli altri attori, di modo che la comicità arrivi da ogni parte, stereofonicamente. I personaggi sono molto ben tipizzati, immediatamente riconoscibili, ma non vengono disonorati con una loro riduzione a macchiette. Il centro del dispositivo comico non è l’azione drammaturgica, che anzi avanza abbastanza lentamente, ma il surplace provocato dalla moltiplicazione dei giochi di parole, delle boutade, dei quiproquò, delle spiritosaggini, delle canzonature. La commedia in effetti non procede, se non quando è strettamente necessario, ma continuamente incede su se stessa caricando tensione comica e scaricandola d’improvviso all’interno di una situazione sostanzialmente debole ma sempre rafforzata dalle possibilità di duetti, triangolazioni ed effetti determinati appunto dalla distribuzione stereofonica delle battute fra i personaggi.
Il testo quindi è pretesto: il geometra Gennaro Parascandolo vuole dare una festa sulla sua terrazza per i diciotto anni della figlia ma gli inquilini del piano di sotto, la signora Lucia e il padre novantaduenne, intendono impedirglielo e si inventano una giustificazione macabra. La vicenda raccontata funge da armadio a cui sono appese le battute, poco o punto letterarie ma squisitamente teatrali, ossia funzionano in quanto concepite per stare in bocca agli attori. Tutta la scrittura drammaturgica è pensata in previsione della scrittura scenica, anzi è asservita all’azione scenica, con buona pace di sperimentatori e avanguardisti surclassati nella loro teoria centrale da un spettacolo di tradizione popolare ottimamente congegnato.
In un simile contesto, dove il tempo di battuta, la precisione dei toni, il controllo della gestualità e della mimica, il gioco delle entrate e delle uscite di scena, la sintonia fra gli attori, rappresentano l’orologeria dello spettacolo, la compagnia deve funzionare alla perfezione. Il movimento degli attori in scena segue uno schema quasi fisso con Salemme al centro, un secondo comico – il secondino del palazzo in cui abita la famiglia – alla sua destra che si muove in orizzontale, il finto cameriere indiano (un carattere) che entra ed esce dalla quinta di fondo e opera per linee verticali, il gagà della situazione e la figlia di cui è il fidanzato che lavorano sulla sinistra, la moglie del protagonista che gli sta intorno. È tutto molto ordinato, molto semplice, così da ottenere un doppio obbiettivo: permettere allo spettatore di avere punti di riferimento sicuri rendendogli agevole seguire la velocità e la molteplicità degli scambi; facilitare il compito degli interpreti che lavorano su rotaie di treno, per così dire, evitando al massimo tempi morti. Cambi di scena alternati mediante quinte laterali mobili (più precisamente dei “carri”) trasferiscono e riportano l’azione dall’appartamento del protagonista agli inquilini del piano di sotto dove una comica (la bravissima Antonella Cioli) attende il capocomico per una serie di duetti esilaranti di cui uno particolarmente riuscito che sembra provenire dritto dritto dalle parti buffe della sceneggiata napoletana. Salemme si rifà alla tradizione teatrale partenopea che è un universo a sé, con una sua storia peculiare, con i suoi divi locali ignoti al resto d’Italia e con un pubblico popolare competente e indisposto all’indulgenza. Ne riprende i motivi farseschi, la vena surreale, il senso della morte e della provvisorietà della vita, la naturalezza e la giocosità dello stare in scena, la straordinaria efficienza comica in grazia di una lingua fulminea nelle sue contrazioni sintetiche.
Salemme omaggia il padre nobile Eduardo citandolo durante lo spettacolo perché con lui ha cominciato (e con Tato Russo), quella è la tradizione da cui proviene. È un degno figlio del teatro napoletano, un capocomico come non se ne trovano quasi più, unico nella sua generazione e piuttosto moderno perché capace di adattarsi senza darlo a vedere a pubblici non partenopei, per giunta piuttosto televisivi, quindi meno abituati alle regole e alle dinamiche interne di un tipo di rappresentazione popolare che chiede allo spettatore quasi lo stesso istinto teatrale e la stessa velocità dell’attore. Forse è questa la ragione del successo di Salemme: fa teatro.