“Odissea a/r”, testo e regia di Emma Dante, con gli allievi attori della Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo. All’Argentina di Roma

Odissea a r

Trend de vie

Liberamente tratto dal poema omerico, Odissea a/r è un saggio scolastico che Emma Dante ha scritto e messo in scena per i 23 allievi della Scuola dei mestieri dello spettacolo (da lei diretta) del Teatro Biondo di Palermo. Il biennio formativo ha prodotto come risultato quest’ora e mezza senza intervallo vista all’Argentina di Roma che non è uno spettacolo, anche se ne ha l’ambizione, piuttosto una carrellata d’esercizi di laboratorio trasposti direttamente sul palcoscenico. Un po’ come se un impagliatore di sedie intendesse far sedere la gente non sulla sedia finita ma sulle fasce di paglia.
L’obbiettivo di un saggio dovrebbe essere tutto sommato di mostrare cosa hanno imparato gli allievi, che non è di poca fatica, e il precettore avrebbe, bontà sua, da mettersi per così dire dietro di loro, da nascondere la propria mano, ché la sua soddisfazione e il suo orgoglio starebbero nella prova dei ragazzi e delle ragazze. Ed invece da come dispone i ventitré corpi a lei affidati, e prima in quadrato e poi in fila e poi in doppia fila, in marcia avanti e indietro, in colonna a destra e a sinistra, a cantare coralmente, a danzare collettivamente, lo spettacolo ricorda le parate del quarto reggimento carabinieri a cavallo attualmente comandato dal colonnello Paolo Galvaligi. Secondo il vecchio stratagemma di mettere in scena non i risultati di una ricerca collettiva ma la ricerca stessa, confondendo esercizio e creazione, s’annovera in questo saggio di Emma Dante buona parte delle tradizionali pratiche di un laboratorio: il salto con la corda, l’uso del ventaglio, gli esercizi vocali, i movimenti di gruppo sincronizzati e naturalmente vestizioni e svestizioni varie con i giovani che restano in mutande. Si sta in un tipo di teatro che non può fare a meno delle mutande, un teatro scamiciato ma mutandato. D’altronde questa Odissea incentrata su Telemaco – il figlio di Penelope e Ulisse – che va in cerca del padre, si sviluppa come una storia familiare in cui i protagonisti vengono spogliati delle loro vesti mitiche ed esposti nella loro nudità umana di esseri fragili e imperfetti. Quindi risulta corretto, da teatro fatto per benino, che al mito esegeticamente in déshabillé corrisponda visualmente l’epidermide degli attori e una pauperistica, laboratoriale, assenza di scenografie. Sulla recitazione dei discenti ingiusto sarebbe dire, un po’ perché sono incastrati in una regia autoritaria che lascia spazio soltanto alla propria progettazione, un po’ perché essendo allievi – e qualcuno già con incipienti vizi recitativi e un sospetto di birignao – si vuol sempre sperare che le occasioni della vita e dell’arte li ripropongano in altre situazioni più favorevoli all’espressione delle loro individuali capacità interpretative.
La Dante è una griffe del teatro italiano e così come Versace firma le piastrelle per i bagni, anche la regista siciliana può permettersi di marchiare col suo nome una scena di ragazze in costume da bagno per un grande tuffo nel mare della creatività al servizio di un’inedita, sorprendente, moderna, anzi postcontemporanea o temporanea o tempora, o mores!, visione dell’Odissea. Al pari di Pippo Del Bono, quello di Emma Dante è ormai un vero e proprio sottogenere che si potrebbe chiamare “emmadantismo” e che confluisce nel più ampio filone del pippodantismo. Il pippodantismo è alla scena nazionale ciò che la finta sobrietà del lusso mascherato da povertà, il pauperismo chic della mutanda firmata, è alla moda: un trend de vie.

Marcantonio Lucidi,
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