“Come ne venimmo fuori” di e con Sabina Guzzanti, regia di Giorgio Gallione. Al teatro Vittoria di Roma

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Un’italiana su Marte

Tanti anni fa, nel 1992, quando era assurta da poco a un minimo di notorietà, Sabina Guzzanti rilasciò un’intervista a “Il mio amico treno”, giornale delle Ferrovie in cui dichiarava che lei, “ovviamente”, apparteneva a una famiglia di intellettuali. Quell’avverbio segna il suo modo di stare in scena: lei ovviamente è un’intellettuale, ovviamente esprime concetti giusti, sa da che parte bisogna stare, conosce il bene e il male, quindi ovviamente ha il dovere di catechizzare il popolo con il verbo della verità. Anzi con l’avverbio.
Il problema non riguarda tanto ciò che la Guzzanti dice nel suo spettacolo Come ne venimmo fuori, andato in scena al teatro Vittoria di Roma con la regia di Giorgio Gallione, ma come lo dice. La professoressa dell’ovviamente, la vestale della purezza morale, l’italiana su Marte invece di predisporsi al micidiale e fare voto di vastità, come direbbe Alessandro Bergonzoni, forgia nell’antro dello zero la latta d’un mini racconto sul liberismo mondiale rinforzato dal bignami d’una storia d’Italia degli ultimi venticinque anni. Immaginandosi in un futuro armonioso e civile, rievoca questo nostro disgraziato tempo chiamandolo “il secolo della merda” e tutti noi che già facciamo una certa fatica a viverlo “i merdolani”. Uno spettacolo sulla merda insomma, più esattamente sullo sterco del diavolo, cioè il denaro oggi non più mezzo ma fine, come informa questa italiana su Marte che stigmatizza la finanza e qualche anno fa ha perso 150 mila euro per avere dato i suoi soldi a un mediatore finanziario truffatore, il cosiddetto “Madoff dei Parioli” che assicurava rendimenti dall’8 al 12 per cento. Ma si sa, per gli dèi dell’Olimpo vasto è il campo dei miracoli fra il dire e il fare.
Come ne uscimmo fuori non è un one-woman show satirico come annunciato, perché la satira è secondo il vocabolario Treccani una “composizione poetica che evidenzia e mette in ridicolo passioni, modi di vita e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità, o caratteristici di una categoria di persone o anche di un solo individuo, che contrastano o discordano dalla morale comune (e sono perciò considerati vizî o difetti)”. Ora, lasciando da parte la questione poetica, quello che importa è il ridicolo. Il ridicolo può uccidere anche chi ride, ma nessuno spettatore s’è trasformato in cadavere sghignazzante per le battute al fulmicotone (saette scariche nell’ovatta) della Guzzanti: “I neoliberisti avevano speso quantità di denaro per far passare l’idea che le ideologie erano morte”, “Ne era rimasta una sola e la più terribile di tutte”, “Era necessario un cambiamento antropologico per permettere al mercato di deflagrare, “L’Europa è una mega truffa”.
L’alta lezione di socio-economia s’accompagna ad un excursus storiografico di forte impronta marchiana (Marx adoperato alla grossa) sulla Rivoluzione d’Ottobre, il ’68, il Cile di Pinochet, Milton Friedman e i Chicago boys, l’Argentina della dittatura militare, Maggie Thatcher e i minatori, l’epocale riforma della scuola di Matteo Renzi e via così fino alla constatazione che con le bombe del ’92 che uccisero Falcone e Borsellino la mafia entrò al governo. Al popolo edotto dalla Guzzanti era sembrato che la corte d’Appello e quella di Cassazione avessero scritto che Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio, almeno fino al 1980 avesse avuto rapporti organici con Cosa Nostra. Non bisogna fidarsi delle masse: “Quando la plebe pretende di ragionare – diceva Voltaire – tutto è perduto”.
In scena, la soldatessa del dito indice mostra la strada del ben pensare al benpensante di platea teatrale ma come un bravo pedagogo conscio del fatto che s’impara soltanto divertendosi, ella inserisce qua e là imitazioni dell’ex ministro della Gioventù Giorgia Meloni, dell’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, dell’ex Cavaliere già premier, roba di repertorio per reduci della grande battaglia di Salamina contro il satrapo persiano. “Ho comprato i salamini e me ne vanto”, cantava Ettore Petrolini. Quindi questo di Guzzanti non è esattamente uno spettacolo, piuttosto una “insalatiera muta” che è l’anagramma di “italiana su Marte”.

Marcantonio Lucidi,
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