“Il gesto di Pedro” di e con Giuseppe Manfridi. Al teatro dell’Angelo di Roma

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Sotto il sole di Eupalla

Un giorno del 1947 a Cambridge Ludwig Wittgenstein, che ha appena pubblicato il suo Tractatus logico-philosophicus, passeggia con il grande economista italiano Piero Sraffa discettando di varie questioni. Finché Sraffa spazientito lo interrompe in anglonapoletano: “Vabbuò Ludovi’, explain the logical structure of this, spiegami la struttura logica di questo.” Incomincia così Il gesto di Pedro (Roma – Sampdoria 1-0 del 14 dicembre 1975), sesto monologo scritto e interpretato al Teatro dell’Angelo di Roma da Giuseppe Manfridi per il progetto Diecipartite nato da un’idea di Daniele Lo Monaco.
Ora Wittgenstein e Sraffa poco o punto c’entrano con la storia di Carlo Petrini, detto Pedro, attaccante della Roma di Niels Liedholm nella stagione 75 – 76, coinvolto nello scandalo del calcioscommesse dell’80, scrittore di libri di denuncia del marcio, della corruzione e del doping nel mondo del pallone. Invece il segreto di questo monologo sta proprio nella conversazione fra Witttgenstein che, come ricorda Manfridi, definisce il linguaggio un codice atto ad esprimere la logica del reale, e Sraffa che invece non è soddisfatto e chiede al filosofo di definire la struttura della logica del reale. Tutto lo spettacolo parte da questo assunto: raccontare un’esistenza non basta, per tentare di capirla bisogna entrare nelle segrete articolazioni di un uomo, nel suo intimo vero e seguirne le strade interiori. Carlo Petrini è il nome di una vita difficile di calcio, donne, soldi, fallimenti, processi, fughe e di banche, usurai, malaffare, morti da chimica dopante, fino alla cecità probabilmente provocata dalla criminale farmacopea sportiva, che Manfridi racconta come un viaggio in fondo alla notte. Cita Céline e Dostoevskij e Caravaggio e il François Truffaut de L’uomo che amava le donne e il Pessoa del Faust che comincia con “Tutto è simbolo e analogia”. Analogia, cogliere le relazioni di somiglianza. Il calcio come grande avventura sotto il sole di Eupalla, la musa inventata da Gianni Brera. Erano gli anni del brerismo, poi sono arrivati quelli del blairismo e gli uomini messi in ginocchio dalle loro vite in piedi, gli uomini del coraggio, delle scritture romantiche sulla propria pelle sanguinante sono diventati più rari. “Ecco venire il tempo che vibrando sullo stelo / Ogni fiore svapora come un incensiere; / I suoni e i profumi volteggiano nell’aria della sera; / valzer malinconico e languida vertigine!” (Baudelaire).
Allora non importa se lo spettacolo, allestito con le musiche originali di Antonio Di Pofi, le scene di Antonella Rebecchini, i video di Stefano Sparapano, è lungo quei dieci minuti di troppo. Si sta in un treno con un poco di ritardo, giusto il necessario a terminare la biografia di un soldato nel Vietnam del mondo raccontata da un drammaturgo che si fa attore perché nel succedersi dei giorni si cela il principio della vita, la trasformazione. Manfridi è un nuotatore, s’immerge nell’anima di Carlo Petrini e la attraversa, la esplora, dal fondo di un’esistenza – ogni esistenza è mare – pesca l’intelligenza, il fato, il dolore, la gioia, la morte, il soffio dell’uomo, il suono originale, unico, che ogni essere vivente emana. E quello di Petrini è stridulo a volte, stonato, rotto, eppure coerente nell’incoerenza e alla fine armonioso, compiuto, irripetibile. Attraverso il calcio, Manfridi sta dicendo che ognuno di noi è una musica che vale la pena di essere ascoltata.

Marcantonio Lucidi,
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