“La pazza della porta accanto” di Claudio Fava, regia di Alessandro Gassmann, con Anna Foglietta. All’Eliseo di Roma

Fotografie per la stampa La Pazza della porta accanto. Ombretta De Martini @2015

Nella notte teatrale, tutti gli attori sono neri

La pazza della porta accanto, titolo di un libro di Alda Merini, drammaturgia di Claudio Fava, andato in scena all’Eliseo di Roma, è uno spettacolo in cui si nota nettamente la distanza fra il regista, Alessandro Gassmann, e l’interprete principale, Anna Foglietta, che è brava e purtroppo anche educata, esecutrice diligente delle indicazioni di un metteur en scène di poche idee ma confuse, come direbbe Ennio Flaiano. Una sola scena di tutto l’allestimento ha un certo fascino, quando l’attrice nel ruolo della Merini si sveste, illuminata da un forte controluce che la occulta al pubblico ma ne proietta la grande ombra su un velatino. E quest’ombra che lentamente si spoglia è il segno dell’ingresso nel manicomio che rinchiuderà la “poetessa dei Navigli”.
Quanto al resto, in questo ospedale psichiatrico si strilla in continuazione. Per Gassmann il segno della malattia mentale è l’urlo, il sintomo della follia è una delle ricoverate che ad ogni sua entrata in scena si arrampica come una scimmietta sulle sbarre di una cancellata, la regia è infilare un po’ di videoproiezioni qua e là a didascalia di quanto avviene in scena. Le proiezioni a teatro sono diventate una moda e rappresentano nella maggior parte dei casi una visione senza immaginazione, una calligrafia senza scrittura, un amplesso privo di erotismo.
Il fatto è che questa non è una regia, e neanche un  montaggio di scene in successione, piuttosto una lista di buone intenzioni come il menù di un grande ristorante capitato chissà come sul banco di una tavola calda. Infatti sulla locandina non sta scritto “regia di” ma “uno spettacolo di Alessandro Gassmann”, dicitura che, se la memoria non inganna, neanche Giorgio Strehler ha osato. E se putacaso se lo è permesso, si chiamava Strehler. Il sistema teatrale italiano continua ad offrire la possibilità di fare spettacoli ai cosiddetti “nomi” o “nomini” senza curarsi della loro abilità e ritenendo che siccome notorietà rima con qualità, allora un attore può fare anche il regista perché tanto se ha l’abitudine di salire su un palcoscenico qualcosa tirerà fuori anche quando ne scende. Il dubbio resta sempre lo stesso: ma queste operazioni alla fin fine non tolgono spazio e risorse ad altri artisti abitati da ben altra intensità, da una visione del teatro densa e significativa? Oppure si ritiene seriamente che, come nella produzione cinematografica la pellicola di cassetta paga (o pagava) il grande film, il teatro dei “nomi” o “nomini” allarghi le possibilità per una scena di alta qualità? C’è chi è figlio figlio figlio e chi figliastro figliastro figliastro dovrebbe essere il motto del teatro italiano.
Sugli altri interpreti dello spettacolo, nulla si può dire perché una regia così decisamente piatta e anodina non può esaltarne le qualità e neppure rivelarne i difetti interpretativi. Si sta al buio. Naturalmente ci sono le luci di Marco Palmieri, molto curate. E questa è un’altra moda che sta prendendo piede: è notte in scena? Illuminiamo.

Marcantonio Lucidi,
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