“Tutti i miei cari” di Francesca Zanni, con Crescenza Guarnieri diretta da Francesco Zecca. Al teatro dell’Orologio di Roma
Anne Sexton, la rosa della poesia
Crescenza Guarnieri è una delle migliori attrici della sua generazione e una delle più interessanti e complete della scena italiana. Un talento naturale affinato da una tecnica magnifica. Non recita mai, interpreta sempre. Non lavora come altre artiste molto brave che stanno sul palco come se si trovassero a casa propria, non è quella la sua naturalezza. Lei è una padrona istintiva dello spazio teatrale, una generatrice di emozioni, una potente anima trasformatrice del testo drammaturgico in fatto teatrale. Sa sempre dove mettersi, come muoversi, è precisissima nel rapporto parola – movimento, ha un modo originale di prendere le pause, di costruire l’effetto, di trattare la battuta, allungarla, accorciarla. Ed è una delle poche attrici capaci di far dimenticare che sta facendo un monologo, ché di questi soliloqui che invadono i palcoscenici italiani come zanzare sul far della sera si comincia a vederne un po’ troppi. Il monologo è una prova sopraffina di arte dell’attore, difficile, da concedere ai pochi che sanno come rendersi densi in scena e come riempire lo spazio. È una prova di gigantismo interpretativo. E anche di tecnica della scrittura.
Tutti i miei cari di Francesca Zanni è andato in scena al teatro dell’Orologio di Roma per troppi pochi giorni. Si parla in continuazione di lunghe teniture, si dice sempre che un buon spettacolo deve avere la possibilità di restare in scena ed essere proposto il più possibile allungandogli le date, rimettendolo in cartellone, facendolo girare magari nella stessa città (da un teatro “off” a uno “on”), poi però, a parte qualche caso sporadico – e uno riguarda proprio la Guarnieri che da dieci anni gira con un altro gran monologo intitolato Niente, più niente al mondo – il sistema produttivo e distributivo, che a parole agogna al modello anglosassone, raramente riesce a valorizzare quanto offre di buono.
Sulla figura della poetessa statunitense Anne Sexton (1928 – 1974), Zanni scrive un testo profondo, ricco, articolato e distende la complessità interiore di questa artista affetta da disturbo bipolare che si suiciderà in garage col monossido di carbonio dell’automobile. E lo scrive tenendo conto che deve essere recitato, messo in bocca a un’attrice, e deve essere teatrale, quindi non una biografia analitica, ma una sintesi da cui far scaturire un personaggio che affascini ed emozioni. Francesco Zecca regista offre alla sua attrice tutta una serie di opportunità, di appoggi, di variazioni interpretative e le costruisce attorno una scenografia semplice ma suggestiva, molto adatta al carattere del personaggio e al tipo di sensazioni che Guarnieri deve restituire: un lungo e stretto tappeto di rose rosse che è passerella, letto e forse tomba; una sedia bianca dallo schienale alto e con un cuscino anch’esso di rose; una balaustra bianca; un microfono anni Cinquanta. L’interprete indossa un vestito bianco con applicazioni di rose (costume di Grazia Matera). Il bianco e il rosso. Il candore e la sofferenza, anche il perbenismo e l’indomabilità poetica. E così va Crescenza Guarnieri sull’anima di Anne Sexton che era poetessa e doveva essere moglie e madre di alta borghesia, va con un bicchiere in una mano, una sigaretta nell’altra e ogni tanto chiede: “Scusi, ha da accendere?”. Nessuno può accendere ciò che già è fiamma.