“La bottega del caffè” di Rainer Werner Fassbinder, regia di Veronica Cruciani, con gli attori della Compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. Al Politeama Rossetti di Trieste
Nello sterco del diavolo
La distanza fra La bottega del caffè di Goldoni e la riscrittura del 1969 di Rainer Werner Fassbinder sta nella disperazione. Goldoni è un entomologo che osserva con una freddezza sardonica molto settecentesca l’insetto umano; Fassbinder è un moralista che mette in scena con angoscia un’antropologia distruttiva. Il veneziano guarda la situazione dall’esterno, il tedesco dall’interno; il primo è un realista cinico che parte dal principio che l’uomo è un legno storto e non lo si può cambiare ma solo studiare; il secondo invece è un pessimista e calcola la distanza fra il mondo com’è e il mondo come dovrebbe essere. Poi però il vero pessimista è Goldoni, per il quale tutto sommato non c’è nulla da fare, mentre chi come Fassbinder vede quella distanza agogna in effetti a che essa sia colmata e patisce una speranza sempre disattesa. In fondo Fassbinder è un inguaribile ottimista perché, pur non lasciando scampo ai personaggi, la sua desolazione, la sua indignazione, sottendono una possibilità di riscatto per l’umanità, una salvezza iscritta palingeneticamente in un ideale per il quale vale la pena battersi, lanciare grida di allarme.
Veronica Cruciani ha allestito il testo di Fassbinder nella sala Bartoli del Politeama Rossetti di Trieste e l’ha revisionato qua e là riprendendo alcuni passaggi dell’originale goldoniano e utilizzando, come lei stessa spiega nel programma di sala, i risultati di alcune improvvisazioni fatte insieme agli attori in sede di prove. Materia drammaturgica resa viva quindi, e spettacolare, da un pensiero registico dinamico che continuamente (in scena si vede benissimo) cerca soluzioni visuali e interpretative coerenti. Cruciani è una perfezionista, intende la messa in scena come armonizzazione di tutti gli elementi che la compongono in un’estetica e in una poetica omogenei, compatti nel loro movimento. Aspira a una sorta di realizzazione appagante, vuole che l’allestimento viva di un suo dialogo interno che dia profondità al discorso complessivo della rappresentazione. Quindi per esempio alle musiche che passano da brani barocchi a composizioni elettroniche corrisponde una progressiva variazione dello stile interpretativo degli attori, i quali evolvono da un’iniziale grazia e quasi leggiadria da commedia fino a una tensione tragica, una nervosità dal sapore metallico di sangue. L’operazione è estremamente teatrale in quanto solleva la storia narrata da Fassbinder dal piano del racconto, che sempre cela il pericolo della vicenda come aneddoto, a quello più alto della rappresentazione del vizio umano e dell’individuazione dei principi che lo governano. Vizio che nel caso del dramma di Fassbinder (e di Goldoni) è l’avidità che trova nel denaro, motore dell’azione, la sua massima, feroce espressione mondana. I personaggi non pensano che ai soldi, la degradazione morale sta in questo funesto affondare nello sterco del diavolo. Ogni comportamento, ogni sentimento, ogni pulsione si conforma al tornaconto personale e tutto lo spettacolo, nell’attraversare la rete delle relazioni interpersonali, delle frustrazioni, delle gelosie, della rabbia, delle infamie e delle sopraffazioni, diventa la metafora di una società in disfacimento, ché a dirla così sembra banale ma sulla scena si manifesta come la catastrofe d’una civiltà, d’un sole che cade in un mare di veleno bollente. Come evidentemente sta avvenendo ai giorni nostri.
Di questa ottima, strutturata, benissimo interpretata dagli attori, magnificamente illuminata messinscena resta un dubbio: la crudeltà fassbinderiana sembra stemperarsi nella precisione formale dell’allestimento. Tuttavia la barbarie umana distrugge tutto, non solo la civiltà ma anche le formalizzazioni sceniche. Teatralmente, rompere lo specchio è rompere l’oggetto rappresentato. I personaggi restano dentro una scatola perfetta che ci si aspetterebbe esploda, venga coinvolta essa stessa nella distruzione e finisca in macerie. L’impressione è che la Cruciani abbia fatto un passo leggermente più corto delle possibilità registiche che possiede e si sia fermata un attimo prima di mettere in scena l’estrema conseguenza del suo ragionamento e della sua visione, ossia distruggere la propria creazione teatrale secondo la logica che anche le società più perfette, intese come scatole nelle quali evolvono gli uomini, franano di fronte alla follia e all’avidità. Se non c’è salvezza, tutto deve essere perduto.
Attore ospite della compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Graziano Piazza è un interprete di prim’ordine, ha una capacità invidiabile di esprimere il personaggio di Pandolfo con una violenza trattenuta, fredda e sarcastica che è lo stigma dell’uomo strutturalmente cattivo e naturalmente destinato all’inferno. Mentre Francesco Migliaccio riesce a restituire un Don Marzio dall’equilibrio delicato, un carattere vocato al purgatorio la cui ferocia è stemperata da una remora che lo perderà in questo mondo ma forse lo salverà nell’altro. Tutta la formazione lavora con la cura, la precisione, il nitore che la Cruciani desidera, e genera quel senso di pieno, di coerente, di centrato che l’armonia di un collettivo può raggiungere. Sono tutti da citare: Riccardo Maranzana (Ridolfo), Andrea Germani (Trappola), Filippo Borghi (Eugenio), Ester Galazzi (Lisaura), Adriano Braidotti (Conte Leandro), Maria Grazia Plos (Placida), Lara Komar (Vittoria).