“Io sono Misia – L’ape regina dei geni” di Vittorio Cielo, regia di Francesco Zecca, con Lucrezia Lante della Rovere. Al Piccolo Eliseo di Roma
Un ultimo sguardo a Parigi
Diceva Paul Morand che le memorie di Misia Sert vanno prese con il beneficio di inventario. Ma nel caso di Marie Sophie Olga Zénaïde Godebska nata a San Pietroburgo il 30 marzo 1872, morta a Parigi il 15 ottobre 1950, sposata in terze nozze con il pittore José María Sert, la pura verità non ha molta importanza. C’è chi come Marcel Proust, che a Misia s’ispirò per i personaggi di Madame Verdurin e della principessa Yourbeletjef, è un genio della scrittura e chi è un genio della vita. Si tratta di due modi diversi di scrivere.
Per fare Io Sono Misia – L’ape regina dei geni di Vittorio Cielo, regia di Francesco Zecca, al Piccolo Eliseo di Roma, Lucrezia Lante della Rovere è perfetta: non perché è alta, sottile, bella – nel mondo per fortuna abitano molte ragazze siffatte – ma perché da lei emana la particolare malia della donna a cui il buon dio, chissà perché, ha concesso molte fortune, in ispecie il privilegio di un glamour naturale, di una distratta eleganza. Trattare l’oro come se fosse stagno, vivere disinvoltamente nel lusso materiale e intellettuale dimenticandosi del lusso sono state le caratteristiche di Misia, regina di un salotto parigino frequentato da Ravel, Debussy, Stravinsky, da Nijinsky “che danzava la sua purezza in modo feroce”, da Picasso che “non sapeva stare a tavola, non sapeva il francese, un provinciale”. Questa “cacciatrice di meraviglie umane” come si autodefiniva, ottima pianista e soprattutto un’artista della vita, grande amica di Gabrielle Chanel (Chanel che da ragazza cantava nei caffè – concerto: “Vous n’auriez pas vu Coco? Coco dans l’Trocadéro?” e da lì prese il suo nome), è stata il sogno di Verlaine e di Mallarmé, la musa di Cocteau, la modella di Renoir, di cui bruciò le lettere d’amore, e di Toulouse-Lautrec che “stava sempre a quel tavolo del Moulin Rouge, l’ho amato follemente. Non per il suo corpo, era uno gnomo”. Evidentemente l’amore nel mondo dei geni possiede caratteristiche che alle anime comuni non sono rivelate, tocca un sesto senso più sottile, necessario al corteggiamento fra spiriti e alla loro fusione. Eppure resta carnale, è cielo ma anche terra. “Li ho torturati tutti”, dice Misia. Questa è la grandezza dell’aguzzina, della donna che abbraccia con le onde della mente e nega il proprio corpo, che dell’uomo ama e disseta l’invisibile ma affama il visibile, che accompagna l’ispirazione e interrompe la respirazione.
“Io non partorisco. Io faccio partorire – dice Misia – Gli uomini hanno bisogno di una sfinge per partorire la bellezza. Per diventare artisti. Io li faccio partorire. Li ho fatti partorire, tutti!”. Uomo, partorirai con dolore. Per emanare questa ferma crudeltà, la ferocia delicata di un’implacabile levatrice d’arte, l’attrice seduta, in piedi, sdraiata, contorta, abbandonata su una gigantesca poltrona damascata, il trono della sfinge, genera una recitazione classica precisamente studiata – attacchi, appoggiature, sospensioni, timbrature, pieni, vuoti, aperture, chiusure – perché Misia è al centro della classicità contemporanea, di quella straordinaria stagione di rinnovamento divenuta la tradizione della nostra modernità. Fulgida e oscura, vitale e morente, così la regia di Francesco Zecca desidera la sfinge che non vuole lasciare il mondo e ancora una volta, un’estrema volta, intende esercitare l’arte sua di eludere il dolore, il dolore finale, quello di andarsene. Una regia di questo tipo è un filo di ferro che unisce il testo di Vittorio Cielo e l’interpretazione dell’attrice. Lo spettacolo è così, forse come avrebbe voluto Misia, la caccia a una meraviglia, la richiesta alla morte di aspettare, una lettera d’amore al primo Novecento, l’ultimo sguardo a Parigi di una ragazza di San Pietroburgo.