“Crave” di Sarah Kane, regia di Pierpaolo Sepe. All’India di Roma

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Il sole è morto

Tutte queste urla, tutto questo sbattere gli uni contro gli altri, le corse disperate, i pianti, i gemiti, i rotolamenti per terra, cadere, rialzarsi, ricadere, denudarsi, rivestirsi, tutta questa ecatombe di corpi inferociti, di musiche sparate, di neon raggelanti, di parole brutali lascia freddi per assuefazione all’aggressività in scena. Il teatro della violenza che il regista Pierpaolo Sepe allestisce sul testo di Sarah Kane, Crave, forse ormai è fuori corso. Magari sta incominciando, lentamente per carità, un tempo se non di dolcezza e di armonia, comunque di ricostruzione. Non tutti gli uomini sono figli di Caino. Comunque bisogna sperare, che malgrado tutto, le coscienze s’illuminino, anche una per una, e non è certo rappresentando violentemente la violenza che il miracolo avverrà. Forse è arrivato il momento del bello, della riflessione, del ricominciare. Stiamo tutti camminando in mezzo alle macerie ma continuare ad additare la rovina con la giustificazione che bisogna sapere, quando invero ognuno si rende conto, salvo i ciechi che ancora s’aggirano per la nostra civiltà, e si rendono conto anche gli sciacalli menefreghisti che arraffano soldi e potere dalla distruzione, significa per un artista avere la testa voltata all’indietro.
Per la sua messinscena di Crave (to crave in inglese: bramare, desiderare ardentemente), penultimo dei cinque testi che Sarah Kane scrisse prima di suicidarsi nel 1999, Sepe costruisce una grande gabbia e vi incarcera i suoi quattro attori che si abbarbicano e si arrampicano alla recinzione di ferro. Gli interpreti (Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra, Morena Rastelli) sono bravi, eseguono bene ciò che la regia chiede loro di fare ma qui impera un mondo vecchio, un modo di fare teatro di trent’anni fa che ha distrutto molto e costruito poco. Sarah Kane inoltre è una drammaturga del suo tempo (tempo breve, è morta a 28 anni), gli anni Novanta del secolo scorso. Una Cassandra forse, ma sono passati tre lustri e ormai la catastrofe si è avverata. Parlarne è necessario perché la storia va raccontata, perché gli uomini devono ricordare ciò che sono stati e sapere ciò che ancora molti di loro sono. Ma non indicare una strada, non sforzarsi di uscire dal fango, non agognare al bello, perlomeno alla speranza del bello, è peccare di mutismo. La voce deve dire ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere, la critica è sempre l’individuazione della distanza fra la realtà e la possibilità.
Qui si dice di morte, di sesso, di ossa, di mestruazioni, di sudorazioni e di amori degradati di due coppie: la prima formata da un uomo anziano e da un’adolescente chiusi in una relazione morbosa e violenta; nella seconda una donna attempata e terrorizzata di rimanere sola in vecchiaia vuole un figlio da un ragazzo che la disprezza e la umilia. Notte nelle anime dei personaggi, oscurità in quelle degli spettatori, grida, stridori, parolacce, verbo di serpi dalla gabbia. Sono le 10 e mezza di sera. Fuori è buio. Piove su Roma. Il sole è morto.

Marcantonio Lucidi,
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