“American buffalo” di David Mamet, regia di Marco D’Amore anche interprete assieme a Tonino Taiuti e Vincenzo Nemolato. Al Piccolo Eliseo di Roma
La drammaturgia del McDonald’s
David Mamet in American buffalo dimostra che i balordi agiscono da balordi e finiscono come balordi. La qual verità non è un faro di luce nuova acceso d’improvviso sulla comprensione dell’umanità.
Il teatro dell’autore americano funziona come un tapis roulant che porta inesorabilmente da un punto di partenza noto a un altro altrettanto ovvio e quello che si può fare con un suo dramma è camminarci sopra. Questo fa Marco D’Amore con la sua messa in scena al Piccolo Eliseo di Roma. Prende il testo e, grazie all’adattamento di Maurizio de Giovanni, lo napoletanizza. I personaggi originali, Don (Donny Dubrow), Walter “Teach” Cole e Bobby diventano Don (Donato Russo), ‘O professore e il guaglione. Mentre il junk shop (letteralmente negozio di spazzatura, cioè roba varia, chincaglieria) in cui è ambientato l’originale diventa una “puteca”, una di quelle bottegucce che si trovano nei vicoli di Napoli. L’operazione funziona perché offre al testo una sua dimensione generale di degrado urbano e antropologico contemporaneo. Poi certo, permane la questione di ciò che svela di nuovo o comunque di particolarmente interessante questo dramma naturalistico delicatamente farcito di parolacce e di ovvietà, secondo l’idea che il teatro deve essere la copia fedele di quanto succede nella vita. Un’americanata insomma. Quindi non resta che godersi lo spirito vesuviano con il quale D’Amore serve questa storia da bassifondi di tre tizi senza arte né parte che decidono di rubare un “american buffalo”, moneta che potrebbe avere un certo valore numismatico. Il colpo non si farà perché in condizioni di degrado, si guastano anche i rapporti umani (ovviamente), persino fra i delinquentelli di mezza tacca, già abbastanza corrotti di per sé. Il dramma descrive la progressione, o meglio la regressione dei personaggi verso l’abominio.
Questo è un tipo teatralmente corretto di messinscena, e si potrebbe dire pulito se non fosse che si parla di fango umano. I tre interpreti lavorano con molto agio, anzi professionalmente, tenendo conto del fatto che la professionalità dell’attore naturalistico è ormai diventata un’altra americanata, uno standard di recitazione globalizzata che funziona come un McDonald’s, ad ogni paese lo stesso hamburger. Comunque in questo registro naturalistico si apprezzano lo stesso regista Marco D’Amore (‘O professore) e Tonino Taiuti (Don), mentre inizialmente il più efficace sembra Vincenzo Nemolato (il guaglione), poi col procedere della rappresentazione ci si accorge che fa sempre le stesse cose, gli stessi gesti, le stesse mimiche. Allora viene il sospetto che non di tecnica e di studio del personaggio, di ciò che è, di come evolve, si tratta ma di un altro stereotipo a cui l’attore si aggrappa per arrivare senza pericoli agli applausi finali.