“Il funambolo” di Jean Genet, regia di Daniele Salvo, con Melania Giglio, Andrea Giordana e Giuseppe Zeno. Al Vascello di Roma
L’artista e la domanda
È una riflessione teatrale sulla condizione di solitudine desertica, come diceva Jean Genet, sulla “regione disperata ed eclatante in cui opera l’artista”. Il funambolo, spettacolo di Daniele Salvo in scena al Vascello di Roma sull’omonimo testo di Genet, è un’esortazione: “Bada, bada di morire prima e che sia un morto a danzare sul filo”. La danza dell’artista si trova fra la morte e la creazione. Un grande filferrista dei nostri anni, Philippe Petit, annota nel suo Trattato di funambolismo: “Penserete: la mia ombra era fedele, mi ha portato fin qui, e se per caso il coraggio mi venisse a mancare, getterò alla rinfusa sul filo il cadavere dei miei ricordi fino a trovarmi nel cuore di un uragano, per meglio scalare ciò che mi riempie di terrore”.
Genet, che attraversava una crisi artistica e personale intensa – incominciata nel 1952 in coincidenza con la pubblicazione del libro di Jean-Paul Sartre Santo Genet, commediante e martire – scrisse Il funambolo nel 1957 dopo avere incontrato Abdallah Bentaga. Bentaga era un acrobata algerino di 18 anni che il quarantaseienne scrittore cercherà di trasformare in un filferrista d’eccezione. Gli fa frequentare dei corsi, lo allena lui stesso, lo spinge nella regione disperata dalla quale si genera ogni creazione, lo strema con la ferita d’una solitudine incomunicabile, fardello e singolarità d’ogni artista, che sia un funambolo, un poeta, uno scultore, un pittore o un uomo di teatro.
Qualche anno dopo, Abdallah cade dal filo durante una tournée in Kuwait del circo Orfei per il quale lavorava e la sua carriera rovina a terra con lui. Il giovane e lo scrittore vivranno ancora qualche anno insieme, fino al 1962, e nel ’64 Abdallah ventottenne si suiciderà nel suo piccolo appartamento parigino tagliandosi le vene dopo avere ingerito Nembutal, lo stesso sonnifero che il suo mentore e compagno usava. Da quel momento e fino alla propria morte nel 1986 Genet non scriverà praticamente più né letteratura né teatro, limitandosi a saggi e interventi spesso di impronta politica.
Il funambolo è un lungo poema d’amore e un trattato di arte sul circo, il teatro, la danza, sulla posizione dell’artista nel mondo, sull’ambivalenza dell’attore, sul suo vivere ai bordi della luce e dell’ombra, della gloria e della disperazione, del sacro e del profano. Temi per una camminata sul filo di teatro, danza e canto che Daniele Salvo tende per la corsa del suo spettacolo. “Capire la corsa – scrive Philippe Petit – è accordare il vento della camminata al soffio del cavo, senza porsi domande. La corsa non è il modo per andare rapidamente da un’estremità all’altra del filo. La corsa, ah ah! È il riso del funambolo”. È il riso che non si sente in questo allestimento oggettivamente complesso, raffinato, sofferto, molto estetizzante del regista. Salvo si pone domande, domande dolorose, ma esiste nelle solitudini desertiche un’immensa risata che echeggia per le gigantesche dune interiori di sabbia dell’artista.
Nel 1970, Carmelo Bene ed Eduardo De Filippo andarono a Parigi a trovare Salvador Dalì, che alloggiava in una lussuosa suite dell’hotel Meurice, per proporgli un progetto televisivo, un Don Chisciotte di cui poi non si fece niente. Dalì manifestò il suo entusiasmo per Nostra Signora dei Turchi che Bene aveva girato due anni prima. “Fort bien, fort bien – esclamò il gran pittore – c’est dalinien”. Poi aggiunse: “No, tu non puoi essere ancora un genio, l’ho visto nel tuo film. C’è ancora molta sofferenza, tu sei ancora un artista, io sono un genio”. C’è sofferenza nel lavoro di Salvo, e la sofferenza, che si manifesta nel complicato, è il contrario della semplicità, la quale semplicità è l’opposto della facilità, seppur ne debba avere l’apparenza. Invece questo è uno spettacolo complicato, pieno di cose, di parole, di movimenti, di danze, con una Melania Giglio al canto gotica ed eccessiva, brava ma sfrenata e lontana da una sintonia con la solitudine desertica dell’artista che emette un solo purissimo suono. In tutto lo spettacolo si sente lo sforzo, la lotta che impegna il regista. Philippe Petit: “Il punto preciso dell’equilibrio plana sopra il filo, urta il funambolo, naviga come una piuma sotto il vento dei suoi sforzi”. Ecco, manca la piuma in questo spettacolo e quando Daniele Salvo la lascerà cadere dolcemente nella sua mano, allora non sarà più un artista che pone domande. Sarà lui stesso la domanda.
Oltre a Melania Giglio, in scena Andrea Giordana che interpreta Genet mentre Giuseppe Zeno è il funambolo. Yari Molinari e Giovanni Scura sono i danzatori. Musiche originali di Marco Podda.