“Personalità borderline” di autori vari, regia di Fabrizio Catarci. Al teatro Lo Spazio di Roma

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Menzogna e verità

Il teatro itinerante nelle sue varie forme, per esempio “room to room” come dicono gli anglosassoni, in cui il pubblico non può stare comodamente seduto perché hanno tolto le poltrone come al teatro Lo Spazio di Roma per fare Personalità borderline, è un genere un po’ vecchiotto. In verità, neanche la scelta di lasciare in pace lo spettatore è del tutto nuova, la si pratica con un certo successo da più di duemila anni, il che fa supporre che l’antica formula non sia del tutto sbagliata. Ma tant’è, sovente il vecchio è nuovo e il nuovo vecchio. Molti sono gli esempi nell’ultimo mezzo secolo di spettacoli in cui si ha da stare in piedi e sull’Orlando furioso siffatto a Spoleto nel ’69 Luca Ronconi costruì la sua fama internazionale per poi sbagliare malamente due anni dopo al Théâtre de l’Odéon di Parigi con uno spettacolo itinerante intitolato XX, da Rodolfo Wilcock. C’è stata la moda negli anni Settanta – Ottanta degli spettacoli nelle case private (ogni tanto se ne vede ancora qualcuno) in cui poteva capitare di ritrovarsi nel bagno da soli con un’attrice avvenente e spregiudicata che recitò a lungo en tête à tête con un vecchio critico oggi scomparso e lo rimandò in corridoio imbarazzato e tutto rosso in viso. S’è avuto a Roma nel ’92 anche un kolossal canadese “room to room” su Tamara de Lempicka e Gabriele D’Annunzio che imponeva il nomadismo per le stanze di Villa Brasini. Il tentativo in genere (certo non nel caso di Ronconi) è di fare dell’ipernaturalismo abolendo la relazione tradizionale fra colui che agisce e colui che guarda. Ogni volta la domanda è ovviamente se il disturbo (dello spettatore) vale la candela (dello spettacolo) perché se s’incappa in una brutta serata in piedi invece che seduti si sta come il condannato alla crocifissione che deve portarsi la croce sulla schiena.
Fabrizio Catarci regista di Personalità borderline (testi di Sarah Kane, Carlo Terron, Matteo Papucci e uno degli interpreti, Jacopo Zonca) ha posizionato i diversi episodi del suo allestimento sul palco, in platea, davanti al bancone del bar, nella sala prove al primo piano, nei camerini, un po’ qua e un po’ là. L’organizzazione purtroppo non è perfetta e si staziona a volte parecchi minuti prima di poter accedere ai vari luoghi deputati. Il viaggio quindi non fila liscio e continuo come dovrebbe. A ogni modo, come nella casa degli orrori al luna park, si va in ognuno di questi angoli e stanze dello Spazio, a volte in gruppo, altre a due a due, all’incontro di personaggi psichicamente turbati che in una quasi oscurità raccontano di vite infernali, di pazzie tenebrose, di amori feroci, di delitti, di vizi. Gli interpreti sussurrano nelle orecchie, sfiorano e toccano gli avventori e persino puntano loro dei coltelli al collo. All’ingresso lo spettatore viene avvertito che nulla dovranno fare, proibita qualsiasi iniziativa, prendere l’attore o l’attrice, abbracciarli, mettere loro una mano sulla spalla, spingerli lontano da sé o qualsiasi cosa passi per la testa. Regola all’apparenza più che giusta, in giro è pieno di matti e il rischio per gli artisti ha da essere ridotto al minimo, anzi se possibile annullato. Però così si stabilisce un’asimmetria: l’attore è libero, il pubblico prigioniero. Allora quando un’attrice si siede in grembo a uno spettatore, egli deve rimanere immobile, non può toccarla o stringerla, neanche per finta naturalmente. A lui è negata la finzione permessa all’artista: perché il bacio fra due attori è finzione e quello fra un attore e uno spettatore non lo è? Perché lo spettatore rappresenta la realtà, quindi è pericoloso, fa paura, il che è una contraddizione con la dichiarazione estetica di questo spettacolo che appunto pretende di trasporre sic et simpliciter il vero nella rappresentazione. Vi è una confusione fra diverse forme del rappresentare. Se si vuole rompere la convenzione, benissimo, ma allora si vada fino in fondo e si accetti l’eventuale reazione del pubblico. Altrimenti è troppo facile rompere fin dove conviene. L’artista fracassa il vaso e il pubblico si tiene i cocci.
Lo spettatore le cui gambe hanno servito da sedia all’attrice finirà con le mani legate e la bocca incerottata. Ma dove comincia e dove finisce la finzione, essendo che l’atto di immobilizzare si compie veramente? Chissà chi è il più vizioso, magari lo spettatore che si lascia legare. Se arrivasse d’improvviso la sua dolce consorte, si assisterebbe forse a un divertente sketch. Il marito potrebbe giustificarsi sostenendo che la situazione è solo apparentemente erotica e sadomaso: non vera ed invece verosimile. Ma si provi a convincere la stupefatta e probabilmente furibonda moglie, visto che il marito è effettivamente in balia di una ragazza. E qui c’è la seconda confusione, quella fra il vero e il verosimile. Chi accetta di finire in un camerino buio dove sproloquia un pazzo armato di coltello solo perché il contesto suggerisce che sia un pazzo per scherzo, si ficca a bella posta in un guaio. Se resta in nome del gioco, accetta l’illusione di essere anch’egli attore quando invece, impotente e silente, necessario è solo il suo corpo. Il teatro è una menzogna, si sa, ma che dice la verità, non una menzogna che dice una bugia. Se si alza e se ne va, esprime la sua delusione e commette il reato teatrale di rompere la convenzione arbitrariamente stabilita dal regista e dagli interpreti. Perché nel teatro tradizionale la libertà di andarsene fa parte dell’accordo fra chi sta in scena e chi in platea. Per questo simili spettacoli sono radicalmente autoritari, anche se involontariamente. Chi ci capita dentro non può fare nulla: agli illusi, gli utopici che mostravano di essere troppo comunisti, Stalin riservava il gulag; e i delusi si ritrovavano negli stessi gulag in compagnia dei primi. Non c’è scampo fra illusione e delusione. Bisogna comunque osservare che allo spettatore la libertà è stata tolta per finta e che dopo la rappresentazione non si va in un campo di concentramento ma al ristorante. Però togliere la libertà per gioco è giocare con la libertà. Verosimilmente e veramente. E gli attori? Tutti bravi ma per finta. O per davvero.

Marcantonio Lucidi,
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