La “Fedra” di Seneca, regia di Mariano Anagni, con Marina Biondi, Gabriele Anagni e Marina Zanchi. Al Teatro alla greca di Calcata
Al motel della tragedia
Conversazione in una stradina di Calcata: Che fanno stasera?” “Fanno la Fedra di… aspetta… la Fedra di… di Socrate”. E ancora, un marito a una moglie davanti al botteghino: “È una Fedra, una cosa abbastanza classica”. Dell’abbastanza classico Lucio Anneo Seneca, condannato da Caligola, esiliato da Claudio, precettore di Nerone, è stata data l’altra sera al Teatro alla greca di Calcata rappresentazione d’una messinscena della Fedra in “prima” assoluta che ha inaugurato l’edizione 2016 del Teatrocinefestival.
Ci sono degli spettacoli in cui è difficile individuare le ragioni della messinscena. Qual è l’idea che il regista Mariano Anagni ha di tutta questa tragedia di Fedra seconda moglie di Teseo e innamorata del figliastro Ippolito? Perché ha scelto questo testo e cosa vuole mostrare? Questa può essere una truculenta catastrofe familiare in cui il padre uccide il figlio perché lo crede colpevole di avere insidiato la consorte, la quale ha bellamente mentito al marito dando la colpa a Ippolito quando invece è lei ad essersi pazzamente innamorata e aver tentato l’adescamento. Oppure può essere il trastullo di un grande intellettuale come Seneca che riprende l’Ippolito di Euripide e lo rifà alla sua maniera, perché la storia lo aggrada, perché ha tempo da perdere. O ancora si sta antropologicamente e mitologicamente nel campo del grande tabù, l’incesto. O forse è una tragedia politica sulla tirannide e sui suoi orribili misfatti. Ci sono molte possibilità, basta sceglierne una e mostrarla al pubblico. Sembrerebbe che il regista abbia in mente una Fedra, interpretata da Marina Biondi, libidinosa che si contorce nella morsa del desiderio, Teseo è lontano da un bel po’ di tempo, insomma qui non si fa mai l’amore, Ippolito è un ragazzo fosco, malmostoso, misogino, che vuole solo andare a caccia nei boschi, però è bello e insomma la carne è debole e la tragedia si avvicina. Ci sono tre corifee in mutande e reggiseno che fanno la spaccata con le gambe, un erotismo ginnico in biancheria intima, e successivamente, a mostrare che la tragedia s’è realizzata – Ippolito è stato fatto a pezzi per ordine vendicatore del padre, anche Fedra lo seguirà nella morte – le ragazze si cospargono il corpo di sangue finto, purpuree come baccanti che hanno appena squartato Penteo. A questo punto la rappresentazione diventa teatro pulp, persino un po’ splatter, con un lato trash sottolineato da una scenografia costituita da un affastellamento da rigattiere di manichini decapitati, senza gambe né braccia, di vecchie poltrone, mobili usati, sedie, radio d’epoca, biciclette. In Seneca effettivamente si rintraccia l’idea di una realtà cupa e atroce, però in greco classico Fedra vuol dire “brillante” ed è proprio il fulgore, la grandezza, di questa eroina tragica che qua si perde in una concupiscenza da appuntamento al motel. Sicché quando la protagonista deve dispiegare la propria disperata, passionale magnificenza femminile nella scena in cui si dichiara colpevole di fronte a Teseo, il personaggio è ormai vulnerato e poco verosimile. La Biondi costruisce la sua Fedra sul registro della sensualità ma ne perde l’anima, la passionalità interiore che qui diventa solo carnalità. Ippolito è affidato a Gabriele Anagni, il quale confonde la rabbia con l’urlo, la disperazione con l’agitazione, e non pare individuare quegli equilibri che danno giustificazione e compiutezza a uno dei personaggi della tragedia classica più ghiotti per un attor giovane. Marina Zanchi è invece assai conscia di cosa fare della sua nutrice e offre una prova molto interessante perché dimostra come si può affrontare con ironia un ruolo in una tragedia. Però la prova di questa brava attrice non è omogenea con il resto dello spettacolo e costituisce invece un’apprezzabile parentesi di stile inserita in una frase teatralmente anonima. Paolo Giovannucci è un Teseo senza Teseo perché non è sufficiente dire di esserlo per rappresentarlo. Le tre corifee sono Erika Puddu, Cristina Pelliccia e Donatella Colucci; il messaggero è Lavinia Cipriani.