“I monologhi dell’atomica”, un progetto di e con Elena Arvigo. Al teatro Argot di Roma

I monologhi dell'atomica

L’esplosione dei sentimenti

Elena Arvigo rappresenta un tipo di interprete che riesce a rendere la tecnica uno strumento a fini artistici. Non la usa vanamente, vanitosamente, ma cerca sempre di costruire il gesto sull’emozione (e non l’emozione sul gesto). Quindi è l’intenzionalità che guida il suo corpo e una voce chiara, ben impostata, risonante senza forzature e con delle coloriture scure che le danno ombre di drammaticità. Sovente l’attrice presenta tempi di battuta originali e imprevisti, appena asimmetrici rispetto all’attesa dello spettatore e questo le permette di tenere viva l’attenzione della platea perché si fa trovare idealmente nel posto dove uno non se l’aspetta senza che ciò paia un errore di recitazione. La fisicità segue tale tendenza costituendo una prova di attrice monologante organica, omogenea, risolutiva rispetto all’identificazione del personaggio, e soprattutto credibile. Credibile perché la tecnica recitativa è in lei un meccanismo per così dire idraulico di deflusso delle emozioni.
Arvigo è andata in scena al teatro Argot di Roma nel quadro della rassegna “La scena sensibile”, con una prova solista intitolata I monologhi dell’atomica, drammaturgia che lei stessa ha costruito dai racconti del premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievich sulla catastrofe di Cernobyl del 26 aprile 1986 e di Kioko Hayashi sulla bomba nucleare (chiamata “Fat man”) che gli americani sganciarono a Nagasaki il 9 agosto 1945. La parte compiuta dello spettacolo è la prima, che racconta della tragedia ucraina, mentre per la seconda sull’inferno nella città giapponese l’attrice si avvale di un leggìo. È chiaro che Arvigo, anche regista, ancora non ha trovato la formula che le permetta di dare unitarietà a questi due momenti per formare un percorso drammaturgico e teatrale coerente all’interno delle catastrofi nucleari, belliche e civili. Eppure il montaggio scenico del racconto di Alekseievich costituisce da solo uno spettacolo compiuto, anche in termini di durata, e se ancora non s’è riusciti a trovare una soluzione complessiva, proporre anche la Hayashi significa inzeppare di buona volontà la rappresentazione senza in alcun modo risolverla. Il problema naturalmente è di ordine prettamente drammaturgico e ricade nelle manchevolezze del “teatro di narrazione” o “civile” o “di documentazione” che usa il monologo teatrale come sua tecnica fondamentale ma che mai o quasi si rivela in grado di proporre un’azione, finendo per sostituirla con narrativa orale. “El teatro xe asion, benedetto, no ciacole”, sbottò un giorno quel gran critico drammatico che fu il veronese Renato Simoni.
La bravura della Arvigo è di saper nascondere la debolezza di una drammaturgia che nasce da un testo letterario con il movimento della propria interpretazione della moglie di un pompiere condannato dalle radiazioni della centrale. Trasferito all’ospedale di Mosca, l’uomo attende la morte che arriverà in due settimane. La donna accudisce il suo compagno tutti i giorni, dorme nella sua stanza malgrado le proibizioni e il rischio di contaminazioni, lo veglia, lo protegge, lo consola. La sua è una dedizione totale, sconfinata, un liquido di amore, abnegazione e coraggio bevuto secondo dopo secondo, da una donna giovane, di ventitré anni, attraversata da struggenti moti interiori. Ma in scena non succede niente, questo è un racconto di emozioni e sentimenti. Se non fosse per l’attrice e la sua presenza scenica, per certi suoi sorrisi lunghi di malinconia, per gli occhi espressivi, ci si chiederebbe per quale motivo si è andati a teatro e non s’è rimasti a casa a leggere, per esempio, un buon libro di Svetlana Aleksievich.

Marcantonio Lucidi,
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