“Amleto ovvero le conseguenze della bellezza amara”, regia e interpretazione nel ruolo protagonista di Daniele Scattina. Al Vascello di Roma
Dormire, forse sognare. Affondare
Gli spettacoli sono come le donne, se le si corteggia troppo e le si riempie di chiacchiere senza farle mai parlare scappano. L’Amleto che Daniele Scattina regista e interprete nel ruolo protagonista ha sottotitolato “ovvero le conseguenze della bellezza amara” e messo in scena al Vascello di Roma, è una nave che affonda sotto il peso di un carico eccessivo e mal distribuito in stiva, una signora che si ritrae da un desiderio di conquista che evidentemente Scattina ha coltivato per anni, lo ha covato e ripensato e rimuginato finché ne ha smarrito il senso, cercando poi di recuperarlo nel modo meno consigliabile: forzando e inzeppando di roba la rappresentazione. Fare teatro significa girare una chiave, non obbligatoriamente rompere una serratura.
In questo allestimento si trovano dieci diversi spettacoli furiosamente scaraventati in scena e nessuno compiuto, originale, libero di dispiegarsi, una serie continua di desideri interrotti, finestre aperte e subito richiuse davanti allo spettatore che sta lì ogni volta a chiedersi come sarebbe stato il panorama promesso e mai mantenuto. Si scorge di tanto in tanto un po’ di Leo De Berardinis e un po’ di Carmelo Bene, e un istante di Pina Bausch e forse qualcosa di Tadeusz Kantor. Ma Scattina, lui, dov’è?
Per esempio fin da quando entrano in scena, con la bombetta in testa, un po’ Vladimiro ed Estragone beckettiani, Rosenkrantz e Guildenstern sono morti. Morti perché non hanno nulla a che vedere con quanto li ha preceduti e li seguirà, esteticamente, poeticamente, stilisticamente, perché sono un francobollo in mezzo ad altri francobolli. E quando i comici si apprestano a rappresentare il loro spettacolo (la famosa scena di teatro nel teatro shakesperiana) parte la colonna sonora di Ennio Morricone scritta per il duello finale de Il buono, il brutto, il cattivo. Perché questa citazione? Si vuol dire forse che si sta alla sfida, all’azione cruciale? Ebbene la si mostri. Ofelia è una ragazza sensuale, s’offre al suo principe, lui la stringe e la accarezza, la scena d’amore si ripete, Scattina reitera, insiste, e la relazione originale fra i due personaggi è perduta. Allora ci si aspetta una nuova formulazione del loro rapporto che non viene però, non si esplicita, quindi succede che prima o poi inevitabilmente arriva la famosa esortazione di Amleto a Ofelia “Vai in convento”, battuta centrale, e lo spettacolo senza la guida di un’idea unificante ci va a sbattere su questa battuta come una macchina che sbanda e finisce contro il palo. Sensuale è anche Gertrude, interpretata da Roberta Marcucci – fuori ruolo perché in apparenza troppo giovane per far la madre di Amleto-Scattina – d’una sensualità fredda però, chiaramente voluta ma che non dimostra niente, né crudeltà, né malizia, né astuzia. Senza una regia che le dia, all’interno di una strategia complessiva dello spettacolo, una ragione di questo modo d’impostare il personaggio, l’attrice non entra mai nel vivo dell’azione oltre a dare la sensazione di non avere una sua idea di Gertrude. Giacomo Rosselli nel ruolo di Polonio si ritaglia una prova sua, anche godibile, una figura giuliva e saltellante incapace di vedere arrivare la tragedia, epperò senza relazione con il resto, come se l’attore si fosse ritagliato una parentesi nella quale rifugiarsi. Per il Re Claudio di Gaetano Lembo la parentesi è addirittura vuota e a immaginare lo spettacolo senza di lui si può sospettare che nulla cambierebbe. L’Ofelia di Astra Lanz probabilmente troverebbe un suo arco di evoluzione e si intuisce che l’attrice cerca un governo del personaggio, un filo unitario in tanta confusione, ma è guidata da un regista che ha manipolato il dramma senza trarne ciò che eventualmente lo interessava ed invece ficcandoci arbitrariamente cose sue sconnesse fra loro. La scena finale della morte di Amleto ne è una dimostrazione, venuta bene peraltro ma come visione a se stante: Amleto sta di fronte a tutti gli altri interpreti assembrati che indietreggiano mentre lui avanza e viceversa in un gioco d’onde fino alla sua caduta. Tuttavia si tratta di un esercizio da laboratorio teatrale visualmente gradevole. Non si è arrivati a questa contrapposizione per una lettura del dramma espressa da una regia coerente lungo tutto il suo sviluppo, quindi si resta all’effetto, ancora una volta sul francobollo.
Tanto più che Scattina vaga spesso in scena per i fatti suoi, mentre gli altri stanno sparsi in giro o dietro le quinte, e va al microfono a dire “l’essere o non essere”. Perché va al microfono? Se non si annuncia poeticamente, o almeno dal punto di vista formale, una tale necessità, è retorica. Forse è anche arrivato il momento di rassegnarsi al fatto che, come Rosencrantz e Guildenstern, Carmelo e Leo sono morti. Comunque l’uso dell’amplificazione richiede una modalità precisa e uno scarto nella recitazione e nell’emissione vocale stessa, altrimenti si rischia di “sparare” nel microfono. Infatti nei rimbombi che ne conseguono, del famoso monologo si capisce poco a meno che non lo si conosca a memoria. Come si usa un microfono Scattina lo sa, ne ha dato prova in passato. Stavolta però in lui appaiono una tensione e una rigidità che condizionano tutta la sua prova, dà l’impressione di tenere troppo a questo spettacolo e di non avere adottato la giusta distanza, quell’autoironia che permette di vedere quanto si sta costruendo e come lo si sta costruendo. Fino a dimenticare che uno spettacolo deve avere un’anima, un’anima grazie alla quale tutto scorre e si ordina naturalmente, per evitare di armare una nave destinata ad affondare con la sua confusa stiva nella rada del porto da cui si vuole salpare.