“Chiudi gli occhi”, testo e regia di Patrizia Zappa Mulas, con gli attori allievi della scuola del Teatro di Roma. All’India
Il buio nello sguardo della scena
Il testo scritto e diretto all’India di Roma da Patrizia Zappa Mulas, Chiudi gli occhi, è tratto da una storia vera. Nel 2004 a Teheran Ameneh Bahrami, studentessa ventiseienne in ingegneria elettronica molto bella viene chiesta in sposa da Majid Movahedi, anch’egli universitario, che si è innamorato di lei. Ameneh però rifiuta e Movahedi le getta l’acido sul bel viso, la sfigura per sempre e la acceca. Quattro anni dopo la belva viene condannata da un tribunale alla cecità mediante versamento di gocce di acido negli occhi. Occhio per occhio, è il caso di dirlo. Alcuni attivisti, in particolare Amnesty international protestano, sentenza sospesa ma non annullata. Ameneh però insiste, non perdona e vuole che Bahrami sia privato della vista. Non è pura e semplice legge del taglione, richiesta con forza per le decine di operazioni chirurgiche, la sofferenza, la vita distrutta. È proclamare, in Iran, che il corpo della donna vale quanto quello dell’uomo e non la metà.
Lo spettacolo si svolge il giorno di esecuzione della sentenza, il 14 maggio 2011. A Barcellona, dove Ameneh ha soggiornato per curarsi e che ora ha lasciato per andare a Teheran ad assistere all’accecamento, i tre attivisti che l’hanno aiutata e che appartengono ad un’associazione contro le pene corporali discutono del caso. Sono Xavier, giornalista e fotografo catalano, l’algerino Abu Meddin, docente di diritto islamico, la francese Annie (consulente legale specializzata nella difesa delle vittime della tortura, moglie di Abu Meddin e vecchia fiamma di Xavier) e un medico, il dottor Sobrano. Zappa Mulas mette al centro del dialogo la seguente domanda: cosa succede nelle anime belle degli occidentali quando la vittima si trasforma in carnefice per la giusta causa della parità fra l’uomo e la donna usando un’istituzione giuridica come la pena altrettale, giudicata immorale dalla nostra sensibilità? Nulla, non succede nulla perché Ameneh perdonò all’ultimo minuto il suo aguzzino. Siccome il finale dello spettacolo non può essere che questo, tutto il dialogo precedente viene schiacciato e reso inutile, una specie di esercitazione accademica su questioni giuridiche ed etiche, dalla scelta della ragazza iraniana. Sono gli scherzi che la vita gioca al teatro quando la scena non si fa metafora della realtà. La persona vera è più grande dei personaggi in scena, quindi il fascino del racconto sta dal lato della cronaca e non della finzione: in questo caso è più avvincente leggere la storia sul giornale che vederla rappresentata, il che è una sconfitta.
Zappa Mulas in sede di regia sembra molto affezionata a quanto ha scritto e allestisce lo spettacolo in modo da esaltare la drammaturgia con uno spazio scenico praticamente vuoto, salvo delle pile di sedie. Illumina con dei piazzati bianchi gli interpreti di Xavier e di Abu Meddin – fermi in piedi come le copie di statue romane che si vendono sulla via Appia – in modo che gli spettatori stiano bene concentrati sulle importanti parole che si pronunciano. Poi ci sono altri trucchi un po’ retorici, per esempio i tuoni di temporale che scoppiano proprio nei momenti topici del dialogo, come ad avvertire il gentile pubblico che questi passaggi accuratamente scelti per i rombi del fonico, in nessun modo devono sfuggire, ché lì c’è tutto e l’attenzione ha da essere destata con decisione se per caso qualcuno in platea stesse pensando troppo ai casi suoi sotto la pesante coperta del diritto comparato occidentale e islamico. L’intero spettacolo è piuttosto didascalico, passa il suo tempo a dire: in guardia, stiamo parlando di argomenti seri. E la recitazione degli interpreti ne risente. Sono attori-allievi della scuola di teatro e perfezionamento professionale del Teatro di Roma: Paride Cicirello, Vincenzo D’Amato, Alice Spisa, Jacopo Uccello. Di loro non si può dire molto perché la regia li ha messi in un’armatura di ferro che ne fa dei semplici esecutori del testo. Obbediscono e piuttosto rigidamente. Soltanto Alice Spisa riesce a far baluginare qualcosa della propria personalità artistica. Forse ha presenza scenica, forse sa lavorare con duttilità. Sembra proprio che di questi tempi le giovani donne attrici siano più brave dei loro altrettanto giovani colleghi maschi. Ma questo è un altro discorso.