“Battlefield” di Peter Brook. Al teatro India di Roma

8.BATTLEFIELD - Jared McNeill, Sean O_Callaghan, Ery Nzaramba, Carole Karemera. Foto di Caroline Moreau

Quello che succede dopo la battaglia

Quello che succede dopo la battaglia. Peter Brook è tornato al Mahabharata, che mise in scena nel 1985 al festival di Avignone e che durava nove ore. Adesso, in collaborazione con Marie-Hélène Estienne, dall’immenso poema epico indiano e dall’opera teatrale di Jean-Claude Carrère, il regista trae un altro episodio perché gli urge parlare della guerra e stavolta necessita di poco più di un’ora per dire tutto. Quattro attori – Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba, Sean O’Callaghan, e un musicista, Toshi Tsuchitori, che suona il tamburo. Suona il tamburo perché questo spettacolo è una sveglia, un allarme. Battlefield (“Campo di battaglia”), all’Argentina di Roma in inglese con sottotitoli in italiano, può essere visto in molti modi, sinteticamente in due.
Alla fine della grande guerra fratricida dei Bharata che ha opposto i cento figli Kaurava del re cieco Dhritarashtra, comandati dal primogenito Duryodhana, ai loro cinque cugini Pandava con in testa Yudhishtira, il mondo è un’immensa distesa di sangue e di cadaveri. Milioni di cadaveri. Soltanto un campo di battaglia. Yudhishtira ha vinto e adesso deve regnare. Ma la follia appena conclusa pesa. Tutti i figli di Dhritarashtra sono morti ed egli s’interroga assieme a suo nipote Yudishtira sul senso di un insostenibile dolore, sulle ragioni di un’inutile assurdità. La vittoria è sconfitta. Come si può governare ora? L’angoscia, il rimorso. La colpa, questo demone di fiamma, ieratico e goloso, che dell’anima inghiotte la vita d’oggi e le future. Ieratico, come è tutto lo spettacolo, perché la combustione del mondo e dell’uomo, che tante volte è avvenuta nel corso degli eoni, nelle successioni dei sette manvantara che costituiscono un kalpa – un kalpa è un giorno di Brahma, il successivo una notte di Brahma – è da osservare con lo sguardo semplice e calmo di chi assiste all’azione del dio. Ma i dieci milioni di morti del conflitto fra i Bharata possono essere ancora semplicemente un monito per tutte le guerre di oggi, il simbolo delle masse di genti scaraventate nella pira della storia umana. Brook dice di più.
Questo spettacolo trilla come una sveglia. In Frammenti di un insegnamento sconosciuto, P. D. Ouspenski, dal 1915 al 1923 discepolo del filosofo e mistico armeno Georges Ivanovič Gurdjieff, (definito da Elémire Zolla nel suo Uscite dal mondo sommo buffone e sottile maestro esoterico, truffatore ineguagliabile e studioso discreto, ostinato), riporta questa considerazione della sua guida spirituale: “Vi è la guerra in questo momento. Cosa significa? Significa che molti milioni di addormentati si sforzano di distruggere molti milioni di altri addormentati. Si rifiuterebbero di farlo, naturalmente, se si svegliassero. Tutto quello che accade attualmente è dovuto a questo sonno”. E come ci si sveglia? In questa domanda sta il nucleo dell’insegnamento di Gurdjieff: “Più rigorosamente, diremo che un uomo non può svegliarsi da sé. Ma se venti uomini si mettono d’accordo e stabiliscono che il primo di essi che si sveglierà, sveglierà gli altri, essi hanno già una possibilità. Tuttavia, anche questo è insufficiente, perché questi venti uomini possono dormire nello stesso tempo e sognare di svegliarsi. Dunque è necessario qualcosa di più. Questi venti uomini devono essere sorvegliati da un uomo che non sia addormentato o che non si addormenti così facilmente come gli altri, o che si metta coscientemente a dormire quando ciò è possibile, quando non può risultarne alcun male né per lui, né per gli altri. Essi devono trovare un tale uomo e accaparrarselo, affinché li svegli e impedisca loro di ricadere nel sonno. Senza questa condizione, è impossibile svegliarsi”. Brook è un uomo sveglio. E conosce bene Gurdjieff, nel 1979 ne ha trasposto al cinema l’autobiografia picaresca e iniziatica Incontri con uomini straordinari. In un’intervista occasionata da una tesi di laurea, il grande regista affermò sei anni fa a proposito dell’armeno: “Per tutta la mia vita sono stato interessato a ogni sorta di filosofi, pensatori, maestri di diverse culture e in diverse parti del mondo, e ho letto davvero molti di loro, e ne ho conosciuti molti. Nel ventesimo secolo il più straordinario, interessante, significativo é quest’uomo, Gurdjieff, il cui lavoro ho conosciuto per lungo tempo e ho seguito con grandi, grandi risultati”.
Quindi Battlefield può essere visto come un percorso di risveglio attraverso la teatralizzazione di un passaggio del poema epico indiano. Per questo lo spettacolo è semplice, perché uscire dal sonno è l’atto difficilissimo di un’emersione dell’anima alla coscienza che si può descrivere solo con parole essenziali e metaforiche. Da pronunciare in riva al Gange, o di fronte a un inutile campo di battaglia, o sulla piazza di un villaggio in Africa centrale, raccontando storie di falchi e di piccioni, di serpenti e di manguste. “La vita è sempre preziosa, anche la più misera”, dice il verme per spiegare la sua paura di morire schiacciato da un carro mentre attraversa la strada. Una semplice coperta rappresenta un corpo sdraiato o l’alveo del pensiero d’un uomo. Due canne di bambù sono i piatti d’una bilancia di giustizia. È arrivata l’ora d’inoltrarsi nella foresta per rendere visita al re cieco, la cui anima si libera nella lunga combustione del suo passato.
Oggi gli uomini, alcuni, magari qualcuno di più, incominciano forse, forse, il loro affioramento, lento, lento. Brook con il suo teatro li ha aiutati. Per questo egli non è soltanto il grande maestro della scena ma è un uomo dolce e buono. La dolcezza e la bontà rappresentano la via dell’unica salvezza possibile.

Marcantonio Lucidi,
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