“Rosso” di John Logan, regia di Francesco Frongia, con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña. In scena all’India di Roma

ROSSO di John Logan (prove) regia di Francesco Frongia con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña produzione Teatro dell'Elfo Foto di Luca Piva © 2012

Dentro i colori di Rothko

Ferdinando Bruni è un prim’attore nel quale si sente lo sforzo di essere tale. In lui non sono ovvi la presenza scenica e il carisma, se li deve conquistare con una tensione rivolta a se stesso più che al personaggio da lui interpretato. E questo lavoro sulla propria persona, questa necessità, almeno in apparenza, di riaffermare continuamente il suo stare sulla scena cozza con la cifra naturalistica scelta per interpretare la parte del grande pittore Mark Rothko nel dramma dell’americano John Logan, Rosso, all’India di Roma con regia di Francesco Frongia. Bruni per esempio ha una voce che gratta ma è un grattare che suona innaturale in scena, non ha il fascino di un rispecchiamento dell’anima – anche illusoriamente, anche se frutto di pura tecnica – piuttosto pare artifizio, una spinta sulle di corde vocali, seppur magari nella vita quella è la sua vera voce. In teatro non conta ciò che è, ma ciò che appare. Il risultato è un’interpretazione costruita su una sola delle caratteristiche che il personaggio offre, l’ira, perché puntare tutto su un unico aspetto garantisce un certo peso alla prova d’attore, ma alla lunga il gioco si fa scoperto e ripetitivo. Rothko come lo ha immaginato Logan è figura più complessa, più mossa e nel dialogo viene anche chiarito. C’è una lunga tirata del giovane pittore assistente di Rothko, Ken (assai ben restituito da Alejandro Bruni Ocaña): “La annoia? La annoia? Cristo d’una madonna, dovrebbe provare lei a lavorare per se stesso! Con uno che parla, e parla, e parla, e che cazzo, ma non la smette mai, di parlare? Come si fa a essere così presi da se stessi? E poi se ne sta lì, con l’aria di quello che è tanto profondo, mentre invece è solo un prepotente egomaniaco che si dà un sacco di arie e pensa di saperne più di tutti gli altri (…). E poi la spocchia, Cristo, la spocchia!”. E ancora, sempre Ken: “Lei dice che passa la vita cercando «esseri umani» veri, persone che siano in grado di guardare i suoi dipinti con compassione. Ma dentro di sé ha smesso di credere che persone del genere esistano… ha perso la fiducia… e con quella la speranza…”.
Quindi Rothko non è un monoblocco di collera ma un personaggio attraversato da molteplici onde, complesso, depresso, che si sarebbe suicidato nel 1970. Il suo panorama interiore non è una pietraia bensì una spiaggia sulla quale la vita ha deposto di tutto. Ken è il personaggio che tira fuori il celebrato artista dal suo nascondiglio misantropico costringendolo a misurarsi nel confronto generazionale, ad esplicitare la propria visione del mondo e dell’arte. Qui sta il fascino del dramma di Logan, uno che sa scrivere di esseri umani, che ha sceneggiato The aviator e Hugo Cabret di Martin Scorsese e per Sam Mendes Skyfall in cui la figura di James Bond, che scopre la paura, la morte, la decadenza, è praticamente rivoluzionata rispetto al passato.
Molto accurata è anche la descrizione di cos’è un pittore, di come pensa, di cosa vede. I dialoghi sull’arte e sui colori, il rosso, il nero, il bianco, sono dei gioiellini di precisione, restituiscono il senso e l’atmosfera di una conversazione con quella macchina immaginativa che è una vera mente pittorica, svelano la profondità aliena dell’artista forgiato giorno dopo giorno dalla sua attività solitaria e totale. Il ventiseienne Bruni Ocaña sta bene in parte, assolve ai compiti affidatigli da una regia visualmente molto in accordo col testo, ma possiede una sua personalità e rivela un registro interpretativo potenzialmente ampio da verificare in occasione future.
La storia s’impernia su un episodio della vita di Rothko: nel 1958 gli fu commissionata una serie di murales per il ristorante di lusso Four Seasons di New York, oggi noti come Seagram murals. Rothko lavorò due anni, poi decise che le sue opere non sarebbero state esposte allo sguardo dei ricchi masticatori di cibo del locale e restituì i soldi, tanti, del compenso. Un gesto che decretava come la pittura e la gastronomia siano due cose antitetiche, un rifiuto a spacciare il gusto del palato (e verrebbe anche da dire il gusto tout court, il gusto piccolo borghese del “mi piace, non mi piace”) per esperienza artistica. “ E nessuno mai che guardi niente – dice Rothko tornato da un sopralluogo al Four Seasons – nessuno che pensi mai a niente, non fanno altro che blaterare e abbaiare e mangiare, con i coltelli e le forchette che battono sui piatti, e le parole che tagliano, e i denti che squarciano e ringhiano”. Vengono in mente i visitatori dei musei che si piazzano davanti a Guernica di Picasso con il panino in bocca, assorti nella “mascellazione”.
Lo studio del pittore è una scenografia (dello stesso Frongia) di grandi quadri, i bidoni di colore e di acqua ragia in giro, i pennelli, le spugne per stendere le vernici, le chiazze di rosso sul pavimento, sui vestiti e sulle scarpe di Rothko e di Ken, manca solo l’odore denso e inconfondibile della pittura a olio. La scena centrale dello spettacolo, che la regia esalta, è la preparazione da parte dei due protagonisti della grande tela, il momento in cui tutto è silenzio, quando il pensiero – perché la pittura è pensiero – finalmente nasce nella materia e si libera di ogni conflitto, delle differenze, delle distanze fra il giovane pittore assistente e il grande artista.

Marcantonio Lucidi,
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