“Friendly Feuer” di Marta Gilmore, regia dell’autrice. Al teatro India di Roma
Non sparare all’Europa
Il titolo già dice molto perché Friendly Feuer è un sincretismo di inglese e tedesco che vuol dire “Fuoco amico”. Il sottotitolo è “Una polifonia europea” a indicare la molteplicità dei suoni generati dalla Grande Guerra, la mitraglia, le bombe, i fucili dei plotoni d’esecuzione, le voci mute delle lettere dalle trincee, le urla interiori dei fanti rinchiusi nei manicomi, la conversazione fra un soldato tedesco e uno francese che non si capiscono ma si parlano e stipulano una loro minuscola tregua personale da dietro le rispettive barriere di fili spinati.
In scena all’India di Roma, regia e drammaturgia di Marta Gilmore sulla base di una scrittura collettiva, lo spettacolo è una ricognizione dell’immane sofferenza che il Vecchio continente ha attraversato prima di arrivare alla sua unione. Ed è in un certo modo un richiamo alla sostanziale comunità spirituale dei popoli europei, alla loro capacità di creare, pur nella secolare discordia, una civiltà unica. Un richiamo che arriva proprio nel momento il cui il “friendly Feuer” crepita di nuovo, stavolta trasferito sul piano politico ed economico. Tutti quei milioni di morti della Grande Guerra, tutta quella dannazione, quella sofferenza, un’intera generazione inghiottita nell’enorme insaziabile bocca della ’15-’18 che ha continuato a divorare durante la Seconda guerra e ancora nei Balcani, a Sarajevo, è il campo di ballo d’un balordo ceto di governanti e di burocrati stanziati a Bruxelles e nelle capitali nazionali. Quanto vale la mattanza oggi per queste dirigenze? In nome di cosa sono caduti gli europei? Con simili domande si esce alla fine della rappresentazione e si suppone che tale fosse l’intento della Gilmore e degli attori in scena, i quali però non fanno nessuna operazione retorica, non hanno da lanciare messaggi espliciti ma da raccontare. Distesi sul palco dell’India, gli interpreti vengono coperti dallo stesso enorme foglio di carta d’un gigantesco bloc-notes posato a mo’ di pavimento sul quale poco prima si sono sdraiati, striscianti come soldati in mezzo alla terra di nessuno, fra una trincea e l’altra, a scrivere le parole che il cuore comanda quando la ragione della follia spara. Le braccia, le gambe, le teste dei cadaveri spuntano da questa fossa comune di carta che poi verrà strappata, stracciata, mutilata in tanti pezzi come i destini dei morti in battaglia. Le lingue d’Europa si sovrappongono, l’italiano, il francese, l’inglese, il tedesco, e dicono l’indicibile a tutti noi che siamo i discendenti casuali di sopravvissuti graziati da una pallottola passata a un centimetro dalla testa. Il destino genera i suoi figli nell’oscurità di ombre sconosciute.
Poi d’improvviso la rappresentazione, appoggiata su una buona ricerca documentaria, cambia stile, va a mezzo fra il teatro di narrazione e la conferenza spettacolarizzata. Marta Gilmore riprende Emilio Lussu – che narrò la sua storia di combattente nella Brigata Sassari in Un anno sull’altipiano – e racconta dei traditori. Ricorda il disertore Marrasi che abbandonò la trincea correndo disarmato verso la linea nemica per mettersi in salvo. I commilitoni, su ordine del sergente, gli sparano addosso e lo uccisero proprio quando stava raggiungendo gli austriaci per farsi prigioniero. Gilmore spiega anche come ha cercato la documentazione sui fuggiaschi italiani, il cui nome è occultato “per non disonorare le loro famiglie” e manda filmati sui manicomi in cui venivano internati i soldati impazziti. Tutto ciò è molto interessante ma sono informazioni, la documentazione sembra avere preso possesso della scena. Il repentino cambiamento sorprende: si passa da un teatro antiretorico, a volte addirittura ironico, costruito con belle immagini sceniche, a una forma più televisiva, che invece ha una sua retorica della cronaca. È come se lo spettacolo a un certo momento si fosse stancato di se stesso. Però il pubblico forse non era ancora stanco. In scena, oltre a Marta Gilmore, Eva Allenbach, Tony Allotta, Armando Iovino, Vincenzo Nappi.