“Pilade” di Pier Paolo Pasolini, regia di Daniele Salvo. Al teatro Vascello di Roma
Antropofagia del potere
Un regista bravo come Daniele Salvo, che dirige una compagnia giovane di ottimi elementi, decide di fare il Pilade di Pier Paolo Pasolini che non è un’opera teatrale, piuttosto una sorta di poema un po’ epico e un po’ lirico con distribuzione delle battute ai vari personaggi. L’orgia di pasolinate che da alcuni mesi invade i palcoscenici nazionali, causata dal quarantennale della morte, ha un vantaggio: consente una verifica pratica delle qualità di drammaturgo di Pasolini e conferma che, per dirla brutalmente, non ne aveva. Il suo programmatico rifiuto di tenere conto di quanto in duemila e cinquecento anni si è acquisito in termini di comunicazione teatrale è sospettabile di nascondere un’incapacità di capire cos’è l’arte della scena e una mancanza di talento per questa specifica attività dell’uomo. Il secondo tempo del Pilade non fa altro che ripetere gli stessi concetti espressi nel primo, rotoli e rotoli d’una trippa verbale sempre uguale che comprova il disinteresse dell’autore per i personaggi e per l’azione teatrale in favore di uno sguardo rivolto soltanto a se stesso, a ciò che pensa e che prova, unica realtà teatralizzabile. Il vero protagonista di praticamente tutte le opere teatrali di Pasolini (eccettuato forse Il vantone) è Pasolini con le sue personali lotte politiche, ideologiche e anche psicologiche, per esempio l’eterno combattimento con il proprio pene, ricorrente e noioso tema – a volte palese, altre velato – del suo teatro che anche in Pilade si scorge, seppur Daniele Salvo mascheri questo aspetto.
Ora, le ragioni che inducono un regista a mettere in scena un testo possono essere delle più misteriose, ignote persino a lui che magari sente istintivamente la necessità di attraversare un determinato autore per sperimentare, verificare ed ottenere risultati utili in tempi successivi. O possono essere delle più chiare come il semplice amore del metteur en scène per quel dramma, per le visioni sceniche che gli suggerisce, per il discorso sulla polis che gli urge d’affrontare. Di Daniele Salvo si possono notare due caratteristiche: sa dirigere gli interpreti non nel senso di imboccare la battuta all’attore ma di metterlo nella situazione teatrale che corrisponde a ciò che vuole da lui; è coerente nei suoi allestimenti, è stilisticamente compatto. Lo spettacolo sbagliato di un bravo metteur en scène è sempre migliore dello spettacolo riuscito di un regista mediocre. Ma questo Pilade in scena al Vascello di Roma non è sbagliato, anzi sembra una battaglia contro Pasolini, la sfida a rendere teatrale ciò che tale non appare. E il punto di partenza è dei più difficili: non c’è scenografia e tutto è concentrato sull’ensemble dei quindici interpreti. Il rapporto fondamentale è regia – attore – parola, dove al secondo elemento della triade viene affidata la chiave di volta dell’allestimento inteso come un edificio, un palazzo fatto non di verbo ma di quell’eterea sostanza che è il modo di dirlo e di rappresentarlo. Allora lo scontro fra Pilade ed Oreste, fra il primo che lotta in difesa degli sfruttati e il secondo che ricorre a una Ragione fintamente democratica, fra il comunista e il liberale borghese, è qui tutto di interpretazione, di attori che costruiscono personaggi e non allegorie o manifestazioni sceniche di idee. Marco Imparato per esempio, che fa Oreste, vestito di un doppiopetto nero, camicia bianca e cravatta scura, durante il primo confronto con Pilade, giacca aperta e senza cravatta a dimostrazione di una distanza ideologica, ha movimenti di mano prelatizi e toni che esprimono quel certo sussiego falsamente benevolo del potere autoproclamatosi dalla parte del bene, dell’ordine e della città contro un utopismo romantico bisognoso di insegnamento e redenzione. Pilade quindi sarebbe Pasolini stesso quale intellettuale moderno che respinge la Ragione (fredda, tecnica, ordinatrice) in nome dell’Uomo e afferma la propria diversità, ma per fortuna Elio D’Alessandro non si cura d’interpretare l’autore ma un personaggio che offre nei suoi gesti, nei suoi modi di stare in scena e soprattutto di dire le battute una poetica urgenza della purezza, difficile peraltro da restituire perché astratta e non immediatamente definibile. Elettra è l’ottima Selene Gandini, fosca, disperata, che emana una consistenza del dolore, della consapevolezza ribelle, della femminilità anch’essa stigma della diversità. Atena in pattini a rotelle è un’idea di movimento scenico ma soprattutto le sue schettinate sul palco alzano il vento irrefrenabile d’una dea della Ragione a cui Silvia Pietta dona la ferocia di una divinità senza memoria, che conosce soltanto la realtà e il mondo così com’è a quest’ora. Ed ecco che a questo punto non il testo ma lo spettacolo nella sua teatralità diventa un atto d’accusa all’attuale potere antropofago, antiumano più che disumano, antistorico più che senza Storia perché concentrato ad assicurarsi l’eterna ripetizione, la circolarità di una macchina inutile che serve soltanto il proprio movimento. In questo lo spettacolo è pasoliniano nel senso del miglior Pasolini, quello del cinema, perché chiama alla coscienza e alla Resistenza. Con la erre maiuscola.