“Caffettiera blu” di Caryl Churchill, regia di Giorgina Pi. All’Angelo Mai di Roma

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La quadratura del colore

Caryl Churchill è una drammaturga britannica, nata a Londra nel 1938, poco nota al pubblico italiano ma molto importante nel mondo anglosassone. La sua è una scrittura teatrale di stile antinaturalistico che indaga temi come il potere (e i suoi abusi), il femminismo, la sessualità, il colonialismo, la guerra e sviluppa una critica etica al capitalismo. È una socialista nel senso autentico del termine, ossia sinteticamente una persona che professa una riorganizzazione della società secondo principi di uguaglianza sostanziale e si contrappone alle concezioni individualistiche della vita umana.
Di Churchill la regista Giorgina Pi ha offerto all’Angelo Mai di Roma una prova aperta in vista di una rappresentazione al teatro Rasi di Ravenna di Caffettiera blu, uno dei due atti unici (il secondo è L’amore del cuore) che compongono un’opera del 1997 intitolata Cuore blu. La vicenda narrata ha la sua importanza però ciò che conta veramente è il meccanismo linguistico stabilito dalla drammaturga, la quale sostituisce le parole che assicurerebbero al discorso logica e sensatezza con i termini “caffettiera” e “blu”: “Potresti andare a trovare mio padre in caffettiera”, “È la punta di una caffettiera”, “Blu è una caffettiera già mia”, “Ho bluato molto lei e lei ha bluato molto me”. Questi giochi linguistici sono naturalmente roba che è già stata fatta in lungo e in largo nel corso del Novecento, da Ionesco a Tom Stoppard fino al fumetto dei Puffi blu anche loro (io puffo, tu puffi, egli puffa e noi puffiamo tutti quanti allegramente). Ora la questione si potrebbe chiudere con l’archiviazione del testo nella casella “simpatici trastulli per passare tre quarti d’ora” ma la Churchill non è una sprovveduta. La storia racconta di Derek che va in giro a truffare diverse donne di mezza età spacciandosi per il loro figlio naturale dato in adozione quando era appena nato. Alla trama dell’imbroglio l’autrice aggiunge quindi un inganno della parola che, e qui sta la trovata, non modifica il significato del discorso. La doppia truffa annulla se stessa lasciando inalterata la sostanza della realtà che invece si amplifica: tutti i personaggi si capiscono – e anche il pubblico intende – perché i principi sui quali si basa la relazione umana restano immutabili e questa immutabilità viene esaltata proprio dallo slittamento artificiale della comunicazione verso l’assurdo.
Lo spirito con il quale Giorgina Pi ha allestito lo spettacolo è definito da una nota di regia nella quale si legge di “parabole complesse: sulla futilità dell’esistenza, sulle aporie della comunicazione, sulla natura costruita e fragile di un soggetto non più concepibile come unificato e coerente”. Tutto ciò è vero ma è detto e messo in scena in modo serio. Il sospetto invece è che Churchill abbia scritto un testo ironico e persino comico in certi punti, dove gli spettatori dovrebbero proprio ridere di se stessi e del prossimo. La regia ha trasformato uno scherzo filosofico in un dramma semantico probabilmente perché riteneva che, così facendo, più forte sarebbe stata la critica insita nel testo. Ha confermato questo suo intento attraverso una disposizione della scena a pianta quadrata, con il pubblico posto ai lati e gli attori seduti al centro attorno a un tavolo: il rifiuto della cosiddetta frontalità sarebbe di per sé un segno di contestazione della norma teatrale (domanda: ma c’è ancora necessità di simili artifizi?) e quanto alla figura geometrica del quadrato essa sembra voler esprimere una severità concettuale. Sono tutte scelte legittime ma appunto ciò che si acquista nella dimostrazione si perde nel divertimento che a teatro è un’arma ben più sanguinaria quando si fa étude de moeurs.
In questo contesto registico, gli attori sono tutti bravi e osservano un understatement che solo il luogo comune definirebbe britannico. In effetti si tratta di un atteggiamento interpretativo più sottile, uno stare leggermente al di sotto dei significati del testo, un lavorare di sottrazione per esaltare l’assurdità linguistica della ridicola reiterazione dei termini “caffettiera” e blu” e quindi la distanza che corre fra il comportamento e la parola. La loro prova non è semplice perché una simile impostazione della recitazione implica che i personaggi devono avanzare non in grazia di quello che dicono ma di sfumature nel gesto, nella mimica, nel tono di voce per giunta rese ancor più difficili da trasmettere quando la platea è disposta sui lati e invariabilmente l’attore si trova sempre a lavorare con una parte del pubblico dietro la schiena. Gli interpreti sono: Sylvia De Fanti, Gian Marco Di Lecce, Mauro Milone, Aglaia Mora, Laura Pizzirani, Simona Senzacqua.

Marcantonio Lucidi,
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