“Caino Royale” di Ferrari – Pelusio – Pozzetti, con Andrea Bochicchio e Giovanni Longhin. All’India di Roma per la rassegna “I teatri del sacro”
Il cabaret del sacro
L’idea è che Caino non ha voglia di uccidere Abele, non ne vede la ragione, non intende essere lui il colpevole dell’omicidio che darà l’avvio alla storia dell’Uomo. Un po’ come se Giuda si rifiutasse di vendere Gesù e impedisse quindi l’evento escatologico per eccellenza, il fatto centrale della fede cristiana che professa la redenzione e la salvezza universali attraverso la crocifissione.
Con Andrea Bochicchio e Giovanni Longhin interpreti, Caino Royale, scritto da Domenico Ferrari, Alessandro Pozzetti e Rita Pelusio anche regista, è uno degli spettacoli proposti all’India di Roma dalla rassegna “I teatri del sacro” finanziata dalla Conferenza episcopale italiana.
Niente di convenzionale, di bigotto, di prelatizio in questo testo comico che anzi in certi momenti è piuttosto stravagante e disinvolto, lontano dal teatro religioso ed edificante che ci si aspetterebbe quando ci sono di mezzo gli ecclesiastici. Anzi, negli ultimi anni la Chiesa è intervenuta nelle cose di teatro con la sua solita discrezione curiale ed è uscita dal recinto delle sacre rappresentazioni, drammi religiosi, vite di santi e drammaturgie agiografiche per promuovere presso i fedeli una scena più laica e d’intrattenimento. Nelle parrocchie, per esempio, l’attività maggiormente apprezzata non è il calcetto, come si penserebbe, ma il teatro attraverso la messinscena di spettacoli amatoriali attorno ai quali si crea interesse, partecipazione collettiva, socialità, condivisione. Insomma la Chiesa ha capito ciò che lo Stato, in ritirata sempre più catastrofica, non vuole intendere per almeno due ragioni: l’incredibile idiozia della politica e della pubblica amministrazione e la loro malafede che s’accompagna al terrore che esse, vigliacche e feroci, hanno del teatro come luogo del discorso sulla polis e come attività moltiplicatrice della coscienza critica. La decadente e marcita Repubblica italiana, non più laica e democratica, occupata dalle anime più basse e malformate della nostra società, limita progressivamente la propria ormai spregevole presenza all’ambito clientelare mentre la Chiesa, che laica e democratica non è stata mai, si dimostra capace anche in questo campo di avviare una riflessione e di porsi come un’istituzione, criticabile o meno, foriera di novità teoriche e pratiche. Naturalmente nei teatri parrocchiali si vede spesso roba pessima, non solo perché d’impronta filodrammatica ma per la ricorrente adesione a modelli televisivi sgangherati. Ma di fronte a una Chiesa che s’interessa di teatro in modo a volte anche privo di pregiudizi, c’è da chiedersi per induzione se il pensiero laico, che sicuro vantaggio ha portato all’umanità negli ultimi duecentocinquanta anni, non sia ormai giunto a una disastrosa sconfitta storica, avendo evidentemente divorziato dalla dea Ragione, essendo visibilmente inabile a proporre soluzioni all’attuale enorme naufragio di valori e a suggerire risposte alla nostalgia di elevazione che l’Uomo ha sempre, quando è normale.
Quanto a Caino Royale, si tratta di uno spettacolo da cabaret milanese – in cui i due comici recitano in mutande – irriverente ma con un fondo di moralismo meneghino, fondato sulla distanza fra il mondo com’è e il mondo come dovrebbe essere, quindi lontano dal cinismo romano che si applica alla vivisezione feroce della realtà e dal surreale napoletano che predilige lo scontro fra il fisico e il metafisico, fra la vita e la morte. Bochicchio e Longhin hanno i tempi giusti, sono veloci, molto affiatati, lavorano su consonanze e dissonanze recitative, fanno anche critica di costume – il migrante in fondo al mare che vede un tonno, il broker che si rovina la vita a Piazza Affari, i poliziotti antisommossa che ballano con i manganelli – e hanno un fondo di candore che forse ha aumentato il divertimento della platea romana.