“Cose popolari” di Pistoia – Vincenti – Stella, regia di Nicola Pistoia. Alle Carrozzerie Not di Roma
Casa, amara casa
Fabio, giovanotto senza soldi che lavoricchia ai mercati generali, occupa abusivamente una casa popolare facendosi aiutare da Stefano, il fratello della sua fidanzata Patrizia, un’altra che s’arrangia cantando le canzoni di Mina ai matrimoni. Nello stesso palazzo abita un signore di una certa età, Mario, che con la sua gran barba bianca e un’aria un po’ svagata, un po’ surreale, è uno di quelli che se scrivesse poesie non verrebbe mai pubblicato.
Incomincia così Cose popolari, titolo con gioco di parole (case popolari), scritto a sei mani dagli stessi interpreti Nicola Pistoia, Ariele Vincenti e Francesco Stella, ai quali s’aggiunge in scena Giordana Morandini. Questo è un testo romano in tutto e per tutto, ambientazione, trama, lingua e umorismo, quell’umorismo perlopiù freddo e sarcastico che abbisogna del romanesco e si esercita sull’irriverenza e sulla dissacrazione d’ogni cosa, delle tragedie e delle commedie, dei papi e dei poveracci.
Da quel che si vede fin dalla prima scena, è uno spettacolo di attori che si sono tagliati la pièce su misura. Avevano un plot per le mani, si sono chiusi in una stanza a palleggiarsi le battute e contemporaneamente a scriverle guidati dal più esperto di loro, Nicola Pistoia, anche regista. Poi sono andati in scena a vedere l’effetto che faceva. E hanno ottenuto il risultato perché la platea delle Carrozzerie Not, che è una sala teatrale fra la Portuense e il Tevere, quartiere indicato quant’altri mai per andare a fare comicità romana, rideva di gusto. Lo schema è semplice: in una città degradata fino al grottesco come Roma, tre ragazzi cercano di trovare al problema dell’alloggio una soluzione disordinata quanto la società che li circonda. In mezzo a tanto disfacimento, trovano però Mario, un filosofo dell’esistenza, un personaggio capace di restare puro, semplice, assennato nella sua stravaganza vieux jeu e nel suo anticonformismo, che ama la musica classica e pratica la raccolta differenziata. È un vecchio professore di liceo che parla un italiano perfetto, a tratti aulico, e che un giorno fu buttato fuori dalla scuola perché in un momento di follia s’era spogliato davanti agli studenti. La cultura è nuda di questi tempi, sta peggio della sora Camilla, nessuno la vuole e nessuno la piglia. Ma è bellissima e siccome il suo sguardo può cambiare la faccia del mondo, s’è fatto in modo che non andasse più in giro. E in sua assenza esplodono bombe.
La comicità scaturisce dal contrasto linguistico e comportamentale fra i tre ragazzi e il vecchio signore, fra i loro due modi diversi di affrontare la realtà. Non c’è nessun moralismo, nemmeno quello un po’ mieloso del vecchio saggio che insegna la vita ai giovani. L’aspetto sentimentale si forma grazie al progressivo mutuo riconoscimento di una sostanziale onestà e integrità di tutti i protagonisti. La commedia non ha pretese di critica sociale, non vuole essere più di ciò che è, ossia un’azione che si sviluppa in una determinata situazione. Però affronta, seppur con leggerezza, un paio di problemi gravissimi causati dall’insopportabile corruzione morale ed economica della delinquenza politica e amministrativa che ha occupato, occupa e intende continuare a infettare la capitale, la nazione, la società: l’annullamento del futuro e l’esilio della cultura. Insomma la commedia esplica esattamente il suo compito, per così dire statutario: far finta di raccontare una storia mentre sta raccontando una realtà.
I tre attori giovani – Vincenti, Stella e Morandini – sono bravi, spigliati, hanno i tempi comici giusti, non esagerano nel ricorrere al vecchio trucco pseudonaturalistico di recitare spacciando se stessi per i personaggi. Ma è soprattutto Pistoia che offre una splendida prova. Non tanto per il fatto che è un bravissimo attore, questo è assodato, ma perché realizza sui suoi colleghi meno esperti un’operazione delicata: evita accuratamente di schiacciarli con la propria esperienza e li guida con mano felice lasciando loro ampi ma calcolati spazi interpretativi. È il modo migliore per insegnare l’arte.