“La dodicesima notte” di Shakespeare, regia di Carlo Cecchi. Al teatro Eliseo di Roma
Teatrar m’è dolce in questo mare
Twelfth night, La dodicesima notte, è quella dell’Epifania, anche se nella commedia di Shakespeare non se ne fa menzione. Allora perché questo titolo? Forse perché indicava che si trattava d’un tipo d’intrattenimento adatto alla conclusione delle celebrazioni natalizie: ai tempi del Bardo, durante i dodici giorni fra Natale e l’Epifania, nell’ambiente studentesco si svolgeva una sorta di carnevale. Veniva eletto un re alla rovescia, il King of misrule (misrule: malgoverno, sgoverno, anarchia, caos), che imponeva leggi sovvertitrici di regole, comportamenti e gerarchie. Infatti tutta la commedia è una specie di festa, di ballo in maschera con travestimenti, sostituzioni di persona, equivoci, inganni, beffe, che Shakespeare compose un po’ di corsa, all’incirca nel 1601, probabilmente per una rappresentazione a breve scadenza la sera dell’Epifania.
Sono dettagli che indicano la natura della Dodicesima notte, gioco teatrale di uno Shakespeare ormai padrone di una raffinata tecnica di costruzione delle sue commedie. Se lo si segue nei suoi meccanismi, come Carlo Cecchi ha fatto per la sua messinscena di questa deliziosa e delicata opera all’Eliseo di Roma, usando una bella traduzione di Patrizia Cavalli, la serata è assicurata. Cecchi, che è anche interprete, ha scelto di non avere scenografie, salvo una pedana girevole ideata da Sergio Tramonti, e ha messo dei musicisti in scena – Luigi Lombardi d’Aquino alle tastiere, Alessio Mancini ai flauti e alla chitarra, alle percussioni Federico Occhiodoro – ad eseguire dl vivo le musiche di Nicola Piovani.
Per il resto, ha concentrato la rappresentazione sul triangolo sacro testo – regia – attore. Difatti lo spettacolo si regge principalmente sulle capacità degli interpreti. Cecchi, il cui ruolo di Malvolio non è esteso, ha un paio di momenti interamente suoi affrontati con una misura mista a un’astuzia sorniona da artista che si può permettere di raggiungere il massimo risultato lavorando per sottrazione. Si distingue anche il fool, un ottimo matto shakespeariano interpretato da Dario Iubatti che canta, suona, recita e dona al personaggio una specie di fissità marionettistica e una ferocia petroliniana. Un bell’attore, rigido e snodabile allo stesso tempo, sembra abbia mangiato una spada e ne approfitti per creare un’ironia dura, fredda, da pazzo savio. Sir Toby è tutt’altra storia, sta nel solco di Falstaff, un Falstaff in formato ridotto, e come lui bonario, ubriacone e amante delle donne. Lo interpreta Vincenzo Ferrera che pare avere un solo obbiettivo: tirare fuori comicità da ogni angolo del personaggio, da ogni occasione, e forse la regia lo ha pure un po’ raffrenato, e giustamente perché questa è una commedia dagli equilibri che vanno rispettati se non la si vuol fare rotolare sul fianco della farsa, perdendone la grazia e il procedere elegante seppur divertente. Graziosa è Eugenia Costantini nel ruolo di Viola (travestita da Cesario) che è la sorella gemella di un Sebastiano interpretato da Davide Giordano con un certo fare roccioso utile al personaggio.
L’intreccio è complicato, doppio come doppi sono i fratelli, sicché a descriverlo si rischia di perdersi nei meandri e curve e tornanti dei plot shakesperiani.
Quel che funziona nella messinscena, che non offre nessuna grande trovata di regia, è la semplicità. Cecchi conosce il valore della compagnia e il grado di capacità dei singoli. Impiega quindi ogni attore in ciò che può dare e non li forza, non li strapazza. È uno di quegli Shakespeare pensati da un artista che concepisce il teatro come un fatto naturale, quotidiano. Si va a teatro come si va a prendere una ragazza per portarla a Fregene, in una giornata di sole, col mare tiepido e calmo. Non deve succedere nulla di eccezionale, sconvolgente, ultraterreno (ultratirreno, siccome si sta a Fregene), l’unica cosa che ci si aspetta è di godersi la vita. A teatro, con un buon Shakespeare, per il puro piacere.