“Modigliani”, di Angelo Longoni, regia dell’autore, con Marco Bocci, Romina Mondello, Claudia Potenza, Giulia Carpaneto, Vera Dragone. Al Quirino di Roma.
Le fate verdi di Amedeo
C’ è una scena piuttosto divertente in cui Amedeo Modigliani fa l’amore con Beatrice Hastings, giornalista inglese che scriveva da Parigi, e nell’ardore dell’amplesso le domanda se le piace Picasso. E Matisse? E Utrillo? No Utrillo, no. Ma come, il mio amico Utrillo no? Modigliani, testo e regia di Angelo Longoni in scena al Quirino di Roma, è un ritratto dell’artista attraverso le sue donne. Perché esse sono l’essenza della sua pittura. Longoni dipinge Modì guardando le sue donne. E con questo procedimento poetico trova una sintesi che risolve tutta una serie di problemi legati alla ricchezza e alla complessità di una biografia e di una ricerca artistica fra le più affascinanti (e solitarie) del Novecento. Però appunto, si sarebbe voluto che il collo del Modigliani di Longoni fosse più lungo.
Le quattro amanti di questo bel ragazzo di Livorno arrivato a Parigi nel 1906 sono, ciascuna a suo modo, dei personaggi enormi di quei primi anni del secolo, incominciando da Kiki: è stata la regina di Montparnasse, cantante, danzatrice, tenutaria di un cabaret, la modella e la musa di Foujita, Modigliani stesso e di Man Ray che la rende immortale con il suo Violon d’Ingres. Chi non avrebbe voluto conoscere Kiki se fosse vissuto in quegli anni? E chi non avrebbe voluto amare, come fu la fortuna di Modì, Anna Achmatova, bella, affascinante, sublime poeta (al maschile, come voleva lei) di Odessa? Chissà se Modì le ha mai chiesto, sfiorando le sue labbra, di dirgli qualcosa sulla Russia: “Ghiotta, ghiotta di sangue è la terra russa”, si sarebbe sentito rispondere. Una sola donna di Amedeo basterebbe a costruirsi un’intera avventura dell’esistenza e dirsi in punto di morte che, insomma, vivere non è stato poi così male. Beatrice Hastings, l’inglese ricca, giornalista, poetessa, critica d’arte, romanziera, l’amica di Max Jacob, anche lei una regina della bohème parigina ai tempi della prima guerra mondiale, per un paio d’anni ebbe con il pittore, che la ritrasse varie volte, una relazione difficile prima di finire nelle braccia di Raymond Radiguet e della saffica Katherine Mansfield. Era un mondo abitato da geni. Era la Parigi di André Gide, in quegli anni Marcel Proust stava pubblicando uno dietro l’altro i tomi della Recherche. Quando troppo giovani per aver già potuto mostrare chi sono, queste donne hanno nell’anima una forza tale, anche distruttiva, da essere capaci di buttarsi dalla finestra per puro amore: Jeanne Hébuterne detta “Noix de coco”, “noce di cocco” per la pelle bianco-latte e i capelli castani dai riflessi rossi, così innamorata di Modì e incinta di otto mesi, pittrice di 22 anni, si getta dal quinto piano il giorno dopo la morte del suo Amedeo, il 24 gennaio 1920.
Sono quattro personaggi femminili importanti, complessi, di caratura superiore, ai quali la drammaturgia di Longoni dà rilevanza, e che quindi necessitano di interpreti in grado di offrire loro una pienezza, un carisma all’altezza della loro eccezionalità. Insomma se vien l’uzzolo di mettere in scena, tanto per fare un esempio, Camille Claudel, l’importante scultrice che finì in manicomio proprio in quegli anni, nel 1913, è bene rivolgersi a Isabelle Adjani o a Juliette Binoche. Oppure è cosa assennata armarsi di pazienza e mettersi a cercare dei talenti teatrali. Una buona regia a teatro, purtroppo per i registi, non basta, perché al cinema si può nascondere, in scena non si può che rivelare. Romina Mondello (Beatrice Hastings) e Claudia Potenza (Jeanne Hébuterne) sono soprattutto attrici di fiction televisive, non paiono possedere la profondità né la maturità artistica per ruoli così impegnativi; Vera Dragone deve sostenere nientemeno che il genio e la personalità della Achmatova e recita come se facesse finta di non saperlo però non per questo trova una chiave atta a risolvere il personaggio; Giulia Carpaneto fa Kiki di Montparnasse scambiandola per una donna frivola, cosa in parte vera peraltro, ma è una frivolezza drammatica, un reggiseno sulle tette senza latte della vita d’arte, una giarrettiera posata sulla morte.
L’interprete di Modì invece, Marco Bocci, trova un riparo dal peso del personaggio restituendo la figura di un uomo infantile, malgrado l’hashish, l’oppio, il vino, l’assenzio (la “fata verde”), le sregolatezze, le intemperanze. Su indicazione dell’autore – regista, l’attore situa il pittore fra gli idealisti dell’art pour l’art e riesce, se non a offrire un’interpretazione memorabile, perlomeno a dare una certa eleganza al personaggio, secondo le indicazioni del dialogo e i voleri di Longoni. Quell’eleganza tipicamente italiana che veniva riconosciuta a Modigliani dai suoi contemporanei e che sempre meno oggi si vede nei maschi del nostro paese.
Longoni, sia in sede di scrittura che di regia, è molto preciso, le insegne dei bistrot in cui va Modigliani sono giuste, La Rotonde che sta ancora oggi all’angolo fra il boulevard Montparnasse e il Boulevard Raspail, e Le cadet di Gascogne, anch’esso tuttora vivo, aperto, seppure un po’ troppo turistico, in Place du Tertre a Montmartre. Il velatino sul quale vengono proiettate immagini dei caffè e dei loro interni oltre a foto di famosi quadri di Modigliani risulta però fastidioso perché appanna la visuale della scena, che è lo studio del pittore, il luogo centrale dove avvengono i fatti più importanti. Si tratta di una concessione all’attuale moda di disturbare il teatro con delle proiezioni, come se non si fosse più sicuri della sua millenaria potenza evocatrice. Ma il vero problema di questa regia, complessivamente curata, professionale, calibrata nei tempi e nella durata complessiva, in alcuni momenti persino coinvolgente, è qualcosa di più indefinibile: per dirla con il nome di un vecchio profumo di Nina Ricci (che però è più tardo, del ’48), manca “L’air du temps”. Sul flacone erano rappresentate due colombe in volo su una nuvola di cristallo. Il mondo di Modigliani era una nuvola di cristallo, con una sua precisa atmosfera, una particolare fragranza, un suono, una delicatezza. Era quella Parigi che qui non si sente, che è citata, evocata, ma non ghermita, la Parigi folgorante e fragile che muore di meningite tubercolare all’ospedale de la Charité, della carità. Come Amedeo Modigliani, a 35 anni.