Dalle “Baccanti” di Euripide, “Dionysus – il dio nato due volte” con la regia di Daniele Salvo. Al teatro Vascello di Roma

Dionysus

Il dio dell’eterno doppio

Dalle Baccanti di Euripide il regista Daniele Salvo ha tratto uno spettacolo in scena al Vascello di Roma che ripercorre sostanzialmente l’originale e lo ha intitolato Dionysus – il dio nato due volte.
Il mito dice che Dioniso nacque da Zeus e da Semele, figlia di Cadmo. Semele per volontà propria o per fraudolento consiglio di Era, la gelosa moglie di Zeus, chiese al suo divino amante di apparirle in tutto il suo splendore, ma rimase incenerita. Dioniso, che era ancora nel grembo materno, fu salvato dal padre che lo cucì dentro la sua coscia, da cui nacque dopo una seconda gestazione divina. Nato due volte. Robert Graves narra nel suo I miti greci che per volere di Era i Titani rapirono Dioniso e lo fecero a brani. In un calderone ne bollirono i resti mentre un albero di melograno sorgeva dal suolo inzuppato del suo sangue. Ma la nonna Rea accorse in suo aiuto e gli ridonò la vita. Due volte nato due volte. Ed è questa duplicità ricordata nel titolo che ci si appresta a ritrovare nello spettacolo, dove si chiarisce che protagoniste non sono le baccanti, bensì Dioniso naturalmente perché questa è una tragedia, l’ultima di Euripide ormai senile, della vista e della cecità, dell’uomo che vive e dell’uomo che muore.
Tutto è doppio, tutto è se stesso e il proprio contrario. Dioniso è divino ma a Tebe s’è sparsa la voce che era nato da Semele e da un mortale e che la storia di Zeus serviva a coprire una scappatella. Quindi il signore del vino e del teatro, dell’estasi e dell’ambiguità, viene a portare la felicità ma a chi non sa vederlo e riconoscerlo, la distruzione. Euripide lo mette in scena come il dio che mette in scena la propria epifania, si rivela agli altri attori quanto agli spettatori, ed instaura un teatro del fantastico, da grande illusionista, da autore, interprete, regista di uno spettacolo dal quale nessuno, né chi guarda né chi agisce, uscirà uguale a se stesso. Confonde le frontiere fra il divino e l’umano, l’umano e il ferino, l’al di qua e l’al di là, spiegavano Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet. Le sue magie danzano con i procedimenti drammaturgici di Euripide, espertissimo in sortilegi teatrali quanto Dioniso in incantamenti, e questa danza celebra la tragedia della vita umana e al contempo la festa, il gioco, la meraviglia gioiosa dell’arte.
Dioniso è doppio, sempre, è la divinità del culto ufficiale e della tragedia euripidea. Ed è un dio ma anche un uomo, uno straniero proveniente dalla Lidia quando si presenta sul theologeion, un’impalcatura della scena greca riservata alle apparizioni soprannaturali che Daniele Salvo ha evocato con una collinetta sul palcoscenico del Vascello. Selvaggio e civilizzatore, maschio e femmina perché di andatura femminile essendo stato cresciuto dalle ninfe del Monte Nisa, inventa la vite e il vino che portano gli umani dalla natura alla cultura. Terribili il vino e il sapere e infinitamente dolci, la vista è doppia nell’euforia, cieca nell’ubriachezza. Forse non esistono altri testi di Euripide in cui la vista, il vedere e le parole associate alla visione s’usano con tanta frequenza. Qui Tiresia, il veggente cieco, non vaticina come nell’Edipo sofocleo, non osserva più il futuro, ma guarda e racconta cose passate perché oggi in scena c’è la divinità della doppia vista e della maschera, di ciò che forse è e forse non è, che si nasconde e si svela.
Tutto questo ci si aspettava da uno spettacolo con nel titolo “il dio nato due volte” e molto altro ancora, e pienezza, ebbrezza, morte, vita, eros, incantesimi. Ci si è trovati di fronte a uno spettacolo molto curato ma senza mistero e senza leggi profonde, rispettoso di una normativa formale in contrasto con i piaceri e i dolori della sfrenatezza dionisiaca, con i terrificanti sovvertimenti di un dio folle, savio, razionale, irrazionale, che gioca con tutte le forme, rovescia le apparenze, confonde l’illusorio e il reale e trasforma l’inganno in un atto poetico versificato indistintamente con il sangue degli uomini e degli animali, con il sangue della vita. Il coro delle baccanti, per esempio, è magnifico all’inizio nei suoi movimenti e nelle voci gutturali, inferiche, carnivore, che poi però si ripetono lungo tutta la rappresentazione. La ripetizione è il tocco della morte, è pietrificazione, ossificazione dell’uomo privato della libertà di scelta e ischeletrito in una marionetta governata dal dio. Ma qui non si sente l’eterno ritorno di Thanatos e nessun’altra ragione si scorge nella scelta d’un coro sempre uguale a se stesso. Le parole sono dette, e bene dal gruppo di attori, ma le emozioni sono artificiali. Il lavoro sulla vocalità e sui suoni è sofisticato eppure v’è freddezza perché non l’anima parla ed invece la tecnica, necessaria ma non sufficiente.
V’è come una ritrosia di fronte al dionisiaco, alla perdizione nell’orgia dei sensi, allo stregonesco smarrimento della ragione. Si vuol tenere lo spettacolo non sull’apollineo, che sarebbe troppo dire, ma comunque su una nitidezza geometrica, una logica e una purezza della messinscena. Mentre qua c’è da amare, vivere, ubriacarsi, morire e uscire distrutti dalla tauromachia fra cultura e natura. Lo scandalo dello scontro tra il dio e Penteo, re di Tebe, che non crede alla divinità di Dioniso e da lui, dal dio col passo di femmina, viene indotto a travestirsi da donna, conduce alla tragedia. Tragedia beffarda però, sghignazzo feroce, carnascialesco, di fronte all’improvviso rinsavire della madre di Penteo, Agave, che assieme alle baccanti ha fatto a pezzi il figlio e ne ha infilzata in cima a una picca la testa credendola trofeo leonino. È uno spettacolo volto a celare l’elemento della ricerca teatrale contemporanea “all’interno di una struttura apparentemente lineare dello spettacolo – scrive il regista nel programma di sala – senza compiacimenti o citazioni visive e sonore del teatro di ricerca anni 70 – 80”. Aggirare le montagne invero troppo frequentate della sperimentazione e della visualità e ritornare alle pianure della parola e dell’attore/interprete. Con un sospiro di sollievo. Ma neanche le pianure sono sempre felici, e aride a volte o acquitrinose, alluvionali, malariche. Dionisiache.
In scena, assieme alle otto baccanti, lo stesso Daniele Salvo nel ruolo di Dioniso, Manuela Kustermann è Agave, Paolo Bessegato fa Cadmo, Paolo Lorimer Tiresia e Ivan Alovisio Penteo.

Marcantonio Lucidi,
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