Lucia Poli in “Animalesse” su testi di Palazzeschi, Benni e Highsmith. Al teatro Due di Roma
Il bestiario dell’ironia
Aldo Palazzeschi, Patricia Highsmith, Stefano Benni: sui testi di questi autori Lucia Poli ha costruito uno spettacolo monologante intitolato Animalesse – storie di animali, in scena al teatro Due di Roma.
Sono faccende di gatte, pantegane e scarafaggette, tutte femmine, molto divertenti, smorfiose, aggraziate, ironiche, timide e audaci, che l’attrice, accompagnata dall’organetto di Rita Tumminia, racconta con grande semplicità. È la semplicità del complicato perché sono storie simpatiche, buffe ma esili. A portarle in scena necessitano di una gran brava interprete che come la Poli sappia esattamente cosa tirar fuori dai racconti, con quali tempi, quali ritmi, smorfie, faccette, mimiche, espressioni, gesti, scatti, pause, toni, sussurri, tutto un armamentario tecnico d’artista della scena che non diventa mai esagerazione, guitteria, cortigianeria nei confronti del pubblico. Sofisticato artigianato teatrale per intenditori ma rivolto anche a chi non se ne intende. La scarafaggetta racconta le sue avventure in cerca di cibo, sempre in pericolo di essere schiacciata da una scarpa; la pantegana, che vive una vera esistenza underground, non solo perché abita nelle fogne, ha moti di ribellione e sussulti di dignità di fronte al disprezzo degli umani; la gatta addirittura riuscirà a vendicarsi di un brutto tipo in maniera rocambolesca. Che i bestiari siano specchio della nostra condizione è cosa che si sa dalla notte dei tempi e questo non fa eccezione.
Però lo spettacolo non ha pretese, è un puro gioco d’attrice su testi molto adatti a lei. È un’ora circa di raffinatezze totalmente inutili, ma di quell’inutile come lo intendeva Théophile Gautier nella prefazione al suo romanzo Mademoiselle de Maupin: “ Non c’è nulla di veramente bello che ciò che non serve a niente: tutto quello che è utile è brutto perché è l’espressione di qualche bisogno, e quelli dell’uomo sono ignobili e disgustosi, come la sua povera e infima natura”. Insomma, l’unica cosa utile nella vita sono le latrine. Una teoria dell’arte per l’arte. Tuttavia tanto mestiere ed esperienza della Poli lasciano come una sorta di nostalgia. Perché un’attrice di questo spessore a un certo momento fa venire desiderio di vederla impegnata in altro. Ad esempio, per una bizzarra associazione di idee indotta da un certo suo movimento, un rapido gesto in un punto della sua performance, la si intuisce perfetta per fare Winnie in Giorni felici di Beckett. Anche quello è un meraviglioso regno dell’inutile (un inutile utilissimo). È surreale, la Poli, stralunata a volte, ha l’aria di stare raccontando una storia per caso, perché passava di lì, e siccome ormai si trova, non lascia nulla al caso. Bisogna stare attenti con lei e rimanere ben fermi nel tempo presente, è una di quelle rare attrici che mentre fanno uno spettacolo inducono lo spettatore a pensare al prossimo che faranno. O che si vorrebbe veder loro fare.