“I giganti della montagna” di Luigi Pirandello nell’adattamento, regia e interpretazione di Roberto Latini
La modernità appartiene a chi l’ha fatta
Roberto Latini decide di incominciare la sua versione monologante de I giganti della montagna dalla fine, dall’ultima battuta di quest’opera incompiuta di Luigi Pirandello: “Io ho paura! Ho paura!”, dice il personaggio di Diamante. D’altronde la parola “paura” ricorre dodici volte nel testo e Latini, immerso nel buio del palcoscenico del teatro India la rilancia nel microfono a più riprese, come a dire che questo è il sentimento che deve impregnare l’animo dello spettatore.
I giganti della montagna è un’opera aperta non solo perché è incompiuta ma perché è incompleta e le si può far dire qualunque cosa, la si può riempire d’ogni significato, esoterico, politico, poetico, e gravarla di qualunque stile, espressionistico, surreale, concettuale. Una manna per i metteur en scène, ogni versione è giusta, possibile, enucleabile. Troppo senso significa nessun senso sicché un grande critico del passato, Sandro De Feo, scriveva sull’Espresso il 5 febbraio ’67 in occasione dell’allestimento di Giorgio Strehler: “Io non ho mai saputo bene, e nessuno in realtà lo ha mai saputo, che cosa sia questa “villa della Scalogna”; vagamente e programmaticamente sarebbe una sorta di tempio della poesia e della fantasia, ma a me è sempre parsa una specie di Cottolengo abitato da alcuni deficienti o, se si preferisce, deboli di mente, falliti e fuggiaschi dal caldo mondo della pianura, cui si uniscono altri falliti e relitti del naufragio di una compagnia di attori, che si è rovinata per aver voluto imporre al volgo delle città l’opera difficile di un poeta. E tutti questi minorati e falliti sono mantenuti in stato di ebbrezza dai fuochi di artificio e altri giochi di prestigio e di illusionismo di un benefico mago Cotrone”.
De Feo non aveva torto. D’altronde la vestale della sacra fiamma poetica, la Contessa del dramma pirandelliano, si chiama Ilse, e chi può onestamente respingere l’idea che questo nome possa raffigurare “Il Sé”? Ed ecco che s’aprono gli infiniti labirintici cunicoli dell’esegesi. Comunque “Il Sé” come chiave di interpretazione potrebbe andare bene per il lavoro di Roberto Latini. Latini proviene dalla scuola di Perla Peragallo che alcuni dicono, con verità e giudizio, essere stata la più grande attrice italiana del secondo Novecento. Peragallo fece ditta storica con quell’altro uomo di teatro geniale che fu Leo De Berardinis. Ora Leo e Perla, per dirla in modo molto sintetico, ché una teorizzazione sulla loro opera può prendere un libro, portavano ai massimi livelli l’espressione dell’attore-poeta. Non erano gli unici a lavorare su questa visione del teatro; naturalmente, seppur in modo affatto diverso, c’era Carmelo Bene. Ciò che fa in scena Latini, da solo, in penombra, col microfono, senza microfono, vestito, seminudo, in piedi, sdraiato, immobile, in movimento, con il volto, con la maschera veneziana del medico della peste, è una specie di riproduzione di quanto facevano De Berardinis e Bene. Durante tutto lo spettacolo, che è oggettivamente un’immersione profonda nel testo, studiata, impegnativa, tecnicamente apprezzabile, ci si chiede però dov’è e chi è Latini. Chi non avesse visto altro di lui, potrebbe domandarsi a ragion veduta se possieda una sua originalità artistica, una sua chimica teatrale in cui disciogliere la lezione dei maestri nel crogiuolo di una propria personalità, riconoscibile, unica, o se invece si limita ad essere un imitatore corretto di stilemi altrui. Al microfono troppo carmelobeneggia, se così si può dire, perché non sorga il sospetto: “Com’è pallida” pausa … doppia pausa … “pare” pausa … “moorta”, doppia o, un po’ gutturale naturalmente. E troppe sono le posture, un certo modo di esprimere la propria solitudine in scena, che ricordano Leo. Si notano in questo spettacolo molte maniere della vecchia avanguardia, per esempio la figura ormai retoricissima della ripetizione: “Sentite? Sentite? “Andiamo, andiamo a vedere”. Che queste sono poi esattamente le battute scritte da Pirandello ma qui assumono un tono di luogo comune della sperimentazione perché il teatro è impietoso, può sfuggire al controllo e gonfiare senza che lo si voglia gli effetti della forma che s’è adottata.
Tutta la rappresentazione è un déjà vu nel quale Latini mette tanta roba, tanta precisione e fatica ma come un bravo madonnaro che rifà L’ultima cena di Leonardo. Bene e De Berardinis, così come Perla Peragallo, erano poeti della scena in quanto trascendevano la propria esperienza personale e la rendevano universale innalzandosi a grandi concetti e principi. Il loro rapporto col mondo diventava il rapporto dell’Uomo col mondo perché sapevano che dal microcosmo di un singolo individuo, dalla sua visione parziale delle cose, può nascere una scintilla che per un istante illumina anche allo spettatore il buio nel quale siamo immersi. Invece qui la sensazione è che lo spettacolo sia chiuso dentro “Il Sé” di Latini, come se l’attore lo abbia fatto solo per la propria persona, un viaggio esclusivo che il pubblico deve limitarsi ad osservare nella sua articolazione tecnica e magari ammirare come i bambini guardano felici decollare l’aereo dai bordi del campo d’aviazione di Fiumicino.
C’è molto in tutto ciò di una generazione nata negli anni Settanta-Ottanta che, nel suo movimento collettivo e fatti salvi i casi individuali, ritiene la forma di per sé contenuto e poetica la vaghezza sostanziale di un atteggiamento genericamente lirico. Esigendo sovente un consenso il cui eventuale rifiuto è una responsabilità da addossare non all’artista ma alla platea, involuta e incapace di capire la modernità. Ma la modernità appartiene a chi l’ha costruita, a Leo, Perla e Carmelo, non ai loro epigoni. Poi è pur sempre vero che i madonnari sono anch’essi dei pittori, spesso tecnicamente molto bravi.