“Ogni volta che guardi il mare” di Mirella Taranto, con Federica Carruba Toscano diretta da Paolo Triestino. Al teatro Lo Spazio di Roma
Quando l’interprete salva il testo
Testo sulla testimone di giustizia per fatti di ‘ndrangheta Lea Garofalo, ammazzata dall’ex convivente Carlo Cosco a Milano il 24 novembre 2009, Ogni volta che guardi il mare è uno di quei fatti teatrali che automaticamente trovano un certo consenso. Perché si fonda su una tematica che non può non essere condivisibile, soprattutto quando tutta la vicenda di questo delitto demoniaco – il cadavere della Garofalo viene bruciato e, per rendere più veloce l’operazione, le ossa spaccate a badilate – è visto con gli occhi di Denise, la figlia della poveretta e di Cosco.
I piani di lettura naturalmente sono due: il primo riguarda la capacità del teatro di parlare di cronaca e di sostituirsi ai giornali che per statuto sono legati all’attualità, riproponendo alla coscienza critica del pubblico storie più o meno recenti. Il secondo è prettamente teatrale e riguarda il valore in sé dello spettacolo, svincolato dall’ovvia emozione che l’indignazione per un fatto reale provoca. Portare di peso la vita sul palcoscenico (e non il teatro nella vita) significa in buona sostanza rinunciare a due preziose caratteristiche dell’arte scenica: la forza metaforica, che permette di attribuire a una singola vicenda un carattere generale e di innalzarla ad esperienza della polis; e il senso del meraviglioso che apre le porte della coscienza individuale e collettiva. Il teatro è come la letteratura, non cambia il mondo però fornisce chiavi di interpretazione necessarie a modificare le cose. Quindi il punto è di capire se questo spettacolo trasferisce l’indignazione che si prova su un piano più alto di critica o se si resta nell’ambito di una generica esecrazione. Se insomma lo spettatore esce dalla sala del teatro Lo Spazio, dove il testo è stato rappresentato, con almeno un grammo in più di consapevolezza. Perché la consapevolezza è sempre attiva e anche se magari poco può tramite l’azione individuale, diventa temibile se essa si diffonde nella collettività.
Il fatto che lo spettacolo, un monologo, sia stato scritto da una giornalista, Mirella Taranto, piuttosto che da una drammaturga, cioè da un’artista, non fornisce rassicurazioni sulla capacità di una scrittura di farsi metafora. Ciò non significa che i giornalisti siano degli inabili all’arte (per esempio Dino Buzzati era un magnifico cronista e un eccellente romanziere) ma che la creazione drammaturgica impone uno scatto interiore superiore a quello necessario a scrivere un buon pezzo. Infatti il monologo cerca di allontanarsi dalla cronaca mediante l’artifizio di una sorta di flusso di coscienza. Ma questa è una tecnica complessa, da grande scrittore, che è meglio lasciar stare se non si ha la fortuna di possedere una mano eccezionale e se si spera di evitare le paludi retoriche delle emozioni in luogo delle alte sfere del sentimento. La distanza fra emozione e sentimento è la stessa che corre fra attrazione fisica nata sui divani di una discoteca e la passione amorosa o, se si vuole, fra una dispaccio d’agenzia giornalistica sul suicidio di un’adultera di provincia e Madame Bovary.
L’importante però a teatro è soprattutto che ci siano dei buoni attori. A interpretare Denise è Federica Carruba Toscano, una giovane artista palermitana che, sola in scena, offre un’ottima prova. Non è soltanto questione di tecnica, elasticità interpretativa, capacità di passare dal registro drammatico a quello più leggero, se non comico (perché qui non è possibile) comunque ironico. Attrice solida e ben preparata, Carruba Toscano possiede inoltre il segreto di fra credere che stia recitando soprattutto per te, che la sua prova ti è dedicata. Questo è l’aspetto che strappa lo spettacolo al puro fatto di cronaca e gli offre una dimensione artistica. Aiuta molto la solista la regia di un abile Paolo Triestino: incardina lo spettacolo nel tempo di cottura di una torta che l’attrice realmente prepara in scena e inforna per mangiarsela alla fine della rappresentazione. Questo trucco, non si sa se squisita trovata registica o se ipotizzato in sede di scrittura (nel qual caso l’autrice dimostrerebbe una sensibilità di base al fatto teatrale), determina con precisione un inizio e un epilogo e offre all’attrice una serie di azioni sceniche che rappresentano punti di riferimento ritmici per l’interpretazione. Molti applausi dalla platea all’interprete e tutti meritati. Al teatro Lo Spazio fino al 21 febbraio.